Economia, Scienze economiche

Alzare i tassi: ma con quali conseguenze? Istruzioni per una politica monetaria restrittiva consapevole

Dopo la riunione di Jackson Hole nel board della Federal Reserve si è iniziato a parlare di “taper”, cioè di rallentare il programma di stimolo monetario tramite l’acquisto di titoli sul mercato, escludendo però al momento un rialzo dei tassi richiesto invece a gran voce dai “falchi” nell’Eccles Building, una situazione analoga – guarda caso – a quella in corso presso la BCE.

Tuttavia, dato al che momento il quadro americano sembra offrirci una maggiore prospettiva in merito al verificarsi di questo evento, cerchiamo di capire cosa succederebbe se, magari a fronte di una ripresa strutturale – e non transitoria come sostiene Powell – dell’inflazione, la FED fosse costretta non solo a ridurre gli acquisti di titoli ma anche ad alzare i tassi.

In particolar modo, concentriamoci sulla stretta interconnessione tra politica monetaria e fiscale: che effetti produrrebbe un rialzo dei tassi sul lato fiscale?

Partiamo dal principio che sebbene Powell non sia dell’avviso di tale necessità, il regime di tassi di interesse molto bassi prima o poi deve terminare.

Questo lo possiamo vedere se mettiamo a confronto i tassi di policy della FED con una stima del tasso di interesse naturale (ossia – seguendo la definizione di Wicksell – quello specifico tasso di interesse sui prestiti che è neutrale rispetto ai prezzi delle materie prime e non tende ad aumentare né ad abbassarli, indicato con il simbolo r* ed il trend di r*) elaborata cercato di tener conto diverse variabili come:

  • crescita potenziale del PIL nominale rispetto alla popolazione

Questo ovviamente riflette in parte l’obiettivo di inflazione della Fed e sappiamo dalla cosiddetta equazione di Fisher che un’inflazione elevata dovrebbe causare tassi di interesse nominali più elevati. Inoltre, questo cattura anche il fatto che una maggiore crescita della produttività dovrebbe portare a tassi di interesse più elevati – come ad esempio lo riconosciamo dal cosiddetto modello di crescita di Solow.

  • crescita della popolazione

Questa è usata per catturare entrambe le tendenze di crescita e, ad esempio, l’impatto dei cambiamenti nel risparmio e nella propensione al rischio come conseguenza dei cambiamenti nelle tendenze demografiche.

  • varianza dell’inflazione

Questa è stata scelta in quanto opposto di quella stabilità dei prezzi che rientra tra gli obiettivi perseguiti dalla FED (e che non sempre è riuscita a perseguire).

  • rapporto occupazione/popolazione

Con tale variabile si vuole cogliere da una parte i cambiamenti nell’ottimismo e nel pessimismo degli investitori e dei consumatori e nei diversi periodi ciclo economico” generale e nel livello generale dell’attività economica; dall’altra le tendenze demografiche strutturali.

I dati qui usati sono stati presi dal sito della Federal Reserve di St. Louis; i risultati sulla significatività di questo test, sono esposti nel grafico 1 a livello annuale per i FED funds, per r* e per il trend di r* (che è stato approssimato con un’equazione di sesto grado che restituisce un r2 di circa 0,76 rispetto al tasso di interesse naturale stimato e quindi una buona correlazione), mentre in tabella 1 sono stati esposti i risultati della significatività statistica delle variabili a livello annuale.

Seppur questa si tratti di una semplice regressione lineare multivariata; quindi, uno strumento che non è certamente definibile “rocket science”, data sia la significatività statistica che economica delle variabili, possiamo riassumere il risultato con una semplice e diretta frase: i pasti gratis non esistono come i periodi eterni di bassi tassi d’interesse.

E questo è ancora più vero se consideriamo che l’inflazione – come già detto in almeno due altri articoli pubblicati su queste pagine – potrebbe diventare un problema sia che lo si veda da un punto di vista più “monetarista” ovvero più “keynesiano”, realtà che ci porta a un ulteriore conclusione: la questione non è tanto nel “se”, ma bensì nel “quando” e soprattutto “come” e “con quali conseguenze” i tassi dovranno essere rialzati per evitare che la politica monetaria, indipendentemente dal target di inflazione che si è prefissata (per la FED il c.d. “average inflation targeting”), perda di credibilità.

Ma, detto ciò, quali sono allora le possibili conseguenze di un rialzo dei tassi sulla gestione delle politiche fiscali statunitensi?

In primo luogo, possiamo utilizzare l’approccio adottato qualche tempo fa in una serie di tweet dall’economista danese Lars Christensen e usato per comprendere l’evoluzione del tasso di interesse naturale: stimare i rendimenti del decennale americano usando gli stessi parametri fondamentali utilizzare per stimare quest’ultimo.

I risultati di questa stima (condotta da Christensen a livello trimestrale e rielaborata da me a livello annuale) ci indicano quanto segue nel grafico 2 e nella tabella 2:

Dall’osservazione sia del grafico 1 che 2 è possibile evincere che sono identificabili almeno quattro periodi:

  • la grande inflazione (1967-1982);
  • il periodo della disinflazione (1982-1992);
  • la “grande moderazione” (1992-2008);
  • la grande stagnazione (2008-oggi);

, ove in quest’ultimo osserviamo un’ulteriore caduta dei rendimenti del decennale statunitense.

Tuttavia, ci sono ragioni per credere (come anche mostra in parte il grafico) che il trend del decennale USA, al pari di quanto accade per i tassi di interesse, è destinato a crescere. E questo, per diverse ragioni: in primis, una ripresa economica che si farà sicuramente sentire nel corso del prossimo biennio data l’emergenza pandemica. In secondo, inizieranno a farsi sentire gli effetti delle politiche fiscali della presidenza Trump (con tagli delle tasse a deficit iniziate in tempi non sospetti) e dei programmi di spesa di Biden. Ma allora ciò come impatterà sul bilancio federale USA?

Una possibile risposta ci viene fornita dalla FED di Kansas City in questo working paper: durante la normalizzazione, i pagamenti degli interessi continuano ad aumentare più di quanto lo avrebbero se i tassi non avessero raggiunto lo ZLB (il c.d. livello 0), aumentando potenzialmente il debito pubblico anche a fronte di una ripresa della produzione e delle entrate fiscali.

E se è vero che rispetto al parametro della capacità di pagare, per tali autori è improbabile che la normalizzazione dei tassi di interesse negli USA rappresenti una minaccia immediata per la sostenibilità dato l’attuale livello di debito federale netto (compreso tra il 90 e il 100% del PIL), è pur sempre vero che qualora questo raggiunta cifre nell’ordine del 150% del PIL (cifre molto “italiane” per intenderci), il rischio di insolvenza sovrano può aumentare più rapidamente e quindi con esso le pressioni rialziste sui rendimenti del decennale americano.

Una situazione questa che trova conferma, anche ragionando nel framework dell’economista Christensen, nell’osservazione della correlazione (evidenziata nel grafico 3 qui sotto) che esiste tra il trend del tasso di policy della FED e il trend del rendimento decennale americano:

In sostanza le evidenze – di cui abbiamo già parlato in un altro articolo) – ci dicono che le decisioni di politica fiscale sono strettamente correlate con quelle di politica monetaria: pensare di parlare di una senza tenere in considerazione l’altra, significherebbe avere un quadro parziale della situazione.

Pertanto, tenuto conto del Covid, il necessario aumento dei tassi che si avrà con la ripresa economica dei prossimi due anni non posiamo considerarlo come una mera decisione di politica monetaria priva di conseguenze, fatto che dovrebbe indicare un framework in cui i policymakers dovrebbero muoversi per gestire al meglio il rientro dalla fase di politiche espansive: il governo – onde evitare quel meccanismo rialzista sopra esposto del debito-tasso d’interesse – deve essere consapevole dell’arrivo della stretta monetaria e agire di conseguenza, stabilizzando/riducendo il rapporto debito/PIL e favorendo il miglioramento dei fondamentali dell’economia (in particolar modo la crescita della produttività).

Qualora quest’ultimi punti non venissero perseguiti, decidendo così consapevolmente di non sfruttare il momento, significherebbe costruire un edificio partendo dal tetto piuttosto che dalle fondamenta, con quando ne consegue poi sui relativi abitanti.

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