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Crescita economica: l’innovazione, il ruolo dei privati ed il ruolo dello Stato

Per molti secoli, fino più o meno al 1750, la crescita economica è stata trascurabile in ogni parte del mondo. La gente era in maggioranza povera: esistevano delle élite facoltose e in alcuni posti c’era un ceto medio, numericamente limitato, orientato ai commerci. Essere ricchi coincideva con essere potenti: un mondo dove non c’è crescita è un gioco a somma zero, e dunque non c’è da stupirsi che potere e ricchezza fossero strettamente correlati. Poi, intorno al 1750, l’Inghilterra si imbarcò su una nuova rotta, quella della rivoluzione industriale: il reddito pro capite iniziò a salire e la crescita accelerò in modo stabile, per la prima volta nella storia recente. Questa nuova crescita fu trainata dall’applicazione delle scoperte scientifiche e tecnologiche alla produzione, dalla logistica e dalle comunicazioni, dal management e dall’innovazione istituzionale e dalle trasformazioni in termini di governance e del modo di interagire con l’economia da parte della politica e del potere esecutivo: insomma, fu trainata da tutti gli aspetti che costituiscono l’economia moderna.

In realtà alle persone della crescita in sé e per sé non importa nulla. La crescita è soltanto una statistica che documenta un certo aspetto del cambiamento. In generale, la gente si interessa maggiormente a cose spirituali: i valori, la religione, i rapporti con il resto dell’umanità. Nell’ambito materiale, gli esseri umani si preoccupano delle opportunità. cioè della possibilità di ottenere un impiego produttivo e creativo, di essere preziosi per la società, dell’istruzione, della sanità: insomma, alla gente interessano quelle cose che creano libertà e occasioni per realizzare le proprie potenzialità. La crescita è importante perché queste ultime cose sono correlate e rese possibili dal reddito e dalla ricchezza. Più nello specifico, sono influenzate dai livelli di reddito e ricchezza.


Una crescita alta e sostenuta è nel nostro interesse, perché è questo genere di crescita che modifica i livelli di reddito in misura sufficiente a ridurre la povertà e offrire maggiori opportunità di essere produttivi e creativi. Politici, investitori, aziende e azionisti non fanno altro che parlare di crescita, ma in realtà la crescita è un mezzo per raggiungere un fine.

Ma da dove nasce la crescita?
In un’economia di mercato, i redditi sono determinati dalla produttività del lavoro, cioè dalla produzione di esseri umani che lavorano. Tale produttività a sua volta è determinata dalle loro competenze (individualmente e come insieme), dalle altre forme di capitale con cui devono lavorare (si pensi agli strumenti ad alto contenuto tecnologico) e dall’efficacia delle istituzioni che sovrintendono e governano il sistema di mercato in cui operano.


Con il tempo la produttività degli individui può aumentare, se si aggiunge capitale. E può aumentare anche mettendo gli incentivi di mercato nelle condizioni di funzionare. Uno dei casi più lampanti è l’enorme balzo in avanti della produzione agricola in Cina tra il 1978 e il 1980, quando per la prima volta i contadini furono autorizzati a vendere tutte le eccedenze che riuscivano a produrre al di sopra dell’obiettivo assegnato loro dalla pianificazione centrale. Eppure, da quando la rivoluzione industriale prese il via, i redditi e la produttività non hanno fatto altro che aumentare. La domanda ovvia quindi è: qual è la ragione di questo aumento?


La risposta, in breve, è: l’innovazione.
L’innovazione offre all’innovatore un vantaggio in termini di costi o di differenziazione del prodotto. Il fatto di sfruttare questo vantaggio genera un flusso incrementale di profitti che ricompensa la spesa o i costi dell’investimento fatto per creare l’innovazione. Ma questo vantaggio è transitorio: per dirla in termini semplici, dura finché non arriva un’altra innovazione a soppiantarne la precedente. Questa è la parte della “distruzione”, ed è importante, perché rappresenta il rovescio della medaglia associata al valore di mercato dell’innovazione.

Che cosa fanno e non fanno gli stati per sostenere la crescita?


Il principale fattore trainante della crescita è il settore privato. Gli stati generalmente non creano nuovi prodotti, nuove imprese o nuovi posti di lavoro. Non sono granché bravi in questo: quando provano a organizzare in forma diretta il settore produttivo, come nelle varie forme di economia pianificata, falliscono. Tutti gli esperimenti del XX secolo per pianificare un’economia sono crollati sotto il peso della loro stessa inefficienza e per la mancanza di incentivi. C’è una visione alternativa, che sostiene che i governi dovrebbero fare il meno possibile. Questa visione ha il pregio di mettere in risalto il ruolo fondamentale delle dinamiche del settore privato, ma ha il grande difetto di ignorare l’importante ruolo complementare del settore pubblico, con investimenti e politiche capaci di correggere le deficienze temporanee del mercato nel contesto di un’economia in via di sviluppo, in cui le istituzioni di mercato, le istituzioni giuridiche e le autorità di vigilanza sono in fase di transizione e in cui le falle normative ostacolano il buon andamento dell’economia.


Quello che fanno gli stati, nei casi di crescita alta, è creare un contesto in cui per i privati risulti redditizio investire, mettendo in moto la dinamica competitiva. La questione quindi si riduce sostanzialmente a quali tipi di misure e di investimenti siano necessari da parte del settore pubblico o del governo, nelle varie fasi della crescita, per creare forti incentivi agli investimenti e mettere in moto le dinamiche del settore privato.

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