Economia, Scienze economiche

Dante e l’economia: una combinazione impossibile?

Nella vita ci sono ambiti che non si direbbe mai possano incontrarsi: la fisica nucleare e la filosofia, la fotografia e la passione per gli orologi; oppure – alcuni diranno – l’economia e la letteratura. Nell’articolo di oggi vedremo che non è così; presentando quella che potremo definire “Dantenomics” o “l’economia di Dante”.

In un interessante intervento, Luigi Federico Signorini propone un’interpretazione del pensiero del poeta fiorentino che avvicina due mondi apparentemente diversi come economia e letteratura. Vediamo come.

Il contesto storico

Dante si trova a vivere (e scrivere) in un periodo storico complesso, a cavallo tra il 1200 ed il 1300; un secolo di trasformazioni politiche, sociali ed economiche. Le città stavano progressivamente espandendosi, il ceto mercantile acquisiva sempre maggior importanza e quello che per Dante era il “vecchio mondo” stava scomparendo; un fatto – questo – non particolarmente gradito al Nostro, il quale non mancava di criticare la “gente nova” o i “subiti guadagni”, come riporta Signorini stesso.

Del resto il Basso Medioevo, sebbene “avanzato” rispetto al precedente periodo, non concepiva lo sviluppo come lo intendiamo noi oggi. Più che concentrarsi sugli aspetti positivi che il commercio, lo scambio e l’arrivo di apporti (economici, culturali e sociali) avevano, Dante (e chi come lui era legato al “vecchio mondo”) vedevano con sospetto queste novità sottolineandone gli aspetti negativi. Una visione del mondo “statica” e non “dinamica”: questa è la forma mentis dantesca.

Con questo background bene in mente, Signorini comincia la sua analisi in cui mostra la sua “dantenomics”.

L’avarizia: un “male” necessario?

Uno degli ambiti in cui la “staticità” del pensiero dantesco viene fuori con maggior evidenza è, secondo Signorini, il tema dell’avarizia. Presente sin dal primo canto dell’Inferno (simboleggiata da una lupa) e più volte presente nel corso dell’intera “Commedia”, l’avarizia rappresenta per Dante un peccato capitale.

L’avaro (o in generale chi vuole arricchirsi) è, utilizzando le parole di Signorini per commentare il pensiero del Poeta,

[…]spregevole in quanto avido, contravviene ai Comandamenti e si macchia di
un peccato capitale: questo è quanto.

La prospettiva che abbiamo noi, dopo secoli di evoluzione nel pensiero, è leggermente diversa. Se infatti condanniamo chi fa dell’accumulazione l’unico scopo della sua vita, allo stesso tempo non possiamo non notare che è proprio il fare i propri interessi ciò che spinge le persone al miglioramento per sé e soprattutto per gli altri. Un pensiero, questo, icasticamente scritto nella frase di Adam Smith:

Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse

Un concetto, questo, noto sin dai tempi di Aristotele (che ne parla nella “Politica”, opera sicuramente nota a Dante) e che fa perno sui vantaggi della specializzazione, della divisione del lavoro e dello scambio.

Un concetto, quello del cosiddetto “self interest”, poi ripreso da Poggio Bracciolini, altro intellettuale italiano dell’Umanesimo:

Se tutti quelli che desiderano un po’ più di denaro si dovessero chiamare avari, beh allora dovremmo considerare tutti o quasi colpevoli di questo reato. Tutte le cose che si fanno, si fanno per denaro; siamo tutti tratti dal desiderio di guadagnare, possibilmente neanche poco; e se si eliminasse il guadagno, cesserebbe ogni affare e impresa. Nessuno intraprenderebbe alcunché se mancasse la speranza di un utile. Tutti vanno dietro a questa speranza, tutti la coltivano.

Poggio Bracciolini, De avaricia, in ‘Prosatori latini’, pp. 260-262

Dante e i beni pubblici: alla base c’è l’invidia?

Uno dei concetti fondamentali nell’economia è quello di “beni pubblici”. Nel 1954, Samuelson definì il concetto di “rivalità” nell’utilizzo di un bene, cioè un bene il cui godimento da parte di un soggetto diminuisce quando un altro soggetto gode dello stesso bene. In uno dei tre canti del “Purgatorio” dedicati all’invidia, infatti, Dante utilizza Guido del Duca (un nobile romagnolo) per spiegare l’invidia. Poco dopo, per comprendere cosa stesse dicendo l’anima purgatoriale, chiede a Virgilio delle spiegazioni e ottiene come risposta quello che segue:

Perché s’appuntano i vostri disiri
dove per compagnia parte si scema,
invidia move il mantaco a’ sospiri.

Come spiega Signorini, il punto chiave risiede nel secondo verso:

voi peccatori, voi del mondo, puntate i vostri desideri verso beni che, se fruiti insieme con altri (“per compagnia”), provocano un minore godimento, perché la parte che tocca a ciascuno è minore

Se Samuelson e Dante avessero potuto parlare, la discussione che ne sarebbe seguita sarebbe stata molto interessante. I beni non sono, infatti, solo “rivali” come ci dice Dante ma – come Samuelson nota – possono anche non esserlo: è questo il caso dei beni pubblici. Allo stesso modo, Dante non arriva al concetto di “non escludibilità” formalizzato da Musgrave (altra condizione per definire “pubblico” un bene). E sebbene sia vero che non è pensabile che Dante potesse arrivare a delle conclusioni che sarebbero state raggiunte secoli più tardi, è allo stesso modo sorprendente la capacità di Dante nell’anticipare (e di molto) queste sensibilità.

Due mondi separati?

Spesso tendiamo a pensare alla cultura umanistica e a quella scientifica come a due mondi separati.

La realtà è, tuttavia, che non è così; o almeno non sempre. Una delle riflessioni che concludono l’intervento di Signorini, infatti, è che nell’affrontare problemi più o meno complessi la cosa che occorre, unitamente ad un corretto metodo e ad un corretto trattamento dei dati, una visione d’insieme quanto più ampia possibile.

Come conclude Signorini, insomma,

Così, è bene che, come questa sera, gli economisti non perdano di vista la letteratura, né i letterati l’economia.

+ posts