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Decrescita (in)felice: rallentare non è la soluzione ma una parte del problema.

Nella prima parte di un famoso spot pubblicitario di qualche anno fa, che a volte sentiamo ancora oggi, si diceva che “ci sono cose nella vita che non si possono comprare”, per dire – in sintesi – che non vi sono delle misure oggettive e confrontabili per diversi paesi per quelli che sono degli indicatori di benessere e prosperità che prescindano dalla dimensione economico-finanziaria. Lo stesso concetto, seppure con un registro linguistico molto più altisonante ed in modo più prolisso, venne espresso da Robert Kennedy (un parente del defunto ex presidente degli USA John Fitzgerald Kennedy) in un suo discorso del 18 Marzo 1968 pronunciato presso l’università del Kansas:

“Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”

Questo discorso, sebbene pronunciato da una persona di altissimo profilo (come appunto l’ex presidente degli Stati Uniti), è per molto tempo passato in sordina rispetto ad altri sia dello stesso Kennedy sia di altri personaggi di spicco del mondo politico (e non solo); tuttavia – complice anche la rinnovata sensibilità ai temi quali la giustizia sociale e l’ambiente – è solo con le recenti dichiarazioni del neo Premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi che ha trovato (almeno in Italia) una maggiore risonanza. Parisi, infatti, nel suo discorso alla riunione PreCop26 dei parlamentari tenutasi presso Montecitorio l’8 ottobre scorso ha detto – ricalcando la linea di pensiero di Kennedy – che

“Il prodotto interno lordo dei singoli paesi sta alla base delle decisioni politiche, e la missione dei governi sembra essere di aumentare il PIL il più possibile, obbiettivo che è in profondo contrasto con l’arresto del cambiamento climatico […]”

, ammonendo come

“Se il PIL rimarrà al centro, il futuro sarà triste”

, e che

“Non è una buona misura dell’economia, cattura la quantità ma non la qualità della crescita”.

Dichiarazioni pesanti, queste, che hanno subito scaldato (in positivo) gli animi di una certa fetta della popolazione che va predicando (in maniera più o meno esplicita) il mito della decrescita felice. Siamo troppi, consumiamo troppo – dicono – e questo ci rende dei “parassiti” (pur non utilizzando questo tema specifico, il concetto che esprimono costoro è questo) che consumano risorse e danneggiano il pianeta. La soluzione, sostengono costoro, è di rendersi “sostenibili” mediante un processo di “decrescita felice”; un processo elaborato per la prima volta da Serge Latouche che consisterebbe nella dismissione delle attività umane (considerate aprioristicamente inquinanti) che ci renderebbe – nelle intenzioni di costoro – più poveri ma allo stesso tempo più felici. Il fatto che un premio Nobel abbia cominciato a sostenere (neanche tanto esplicitamente) queste teorie ha dato a costoro una sorta di “legittimazione” per ipse dixit; un atteggiamento che – però – rischia di pregiudicare la corretta comprensione dei fenomeni economici e sociali che governano il mondo.

Di crescita, libertà economica e ambiente ne abbiamo parlato diffusamente in altre occasioni, dimostrando come – al contrario di quello che viene sostenuto da Parisi – i dati ci dicono che una maggiore crescita economica, una buona (e non eccessiva) regolamentazione, la tutela della concorrenza e un disegno intelligente dei sistemi di incentivazione ambientale sono correlata ad una maggiore tutela dell’ambiente. Prendiamo per buono, però, che Parisi abbia ragione e che tutto quello che abbiamo detto sia del tutto inutile e che il vero parametro che dobbiamo osservare per indagare il benessere di una nazione non sia la ricchezza ma – ad esempio – la felicità. Impossibile misurare la felicità, direte voi (e Parisi); tuttavia l’economia – molto tempo prima delle recenti dichiarazioni – ha trovato una risposta anche a questa obiezione con l’elaborazione del cosiddetto “Human Develpement Index” o “Indice di Sviluppo Umano”.

Elaborato nel 1990 dall’economista pakistano Mahbub ul Haq (seguito inizialmente anche dall’economista indiano Amartya Sen) è stato (ed è tutt’ora) utilizzato, accanto al PIL (prodotto interno lordo) per determinare la qualità della vita di un Paese. Semplificando, possiamo pensare all’indice di sviluppo umano come ad una misura riassuntiva del rendimento medio nelle dimensioni chiave dello sviluppo umano: una vita lunga e sana, essere informati e avere uno standard di vita decente. L’HDI è la media geometrica degli indici normalizzati per ciascuna delle tre dimensioni. La dimensione sanitaria è valutata in base all’aspettativa di vita alla nascita, la dimensione dell’istruzione è misurata per mezzo di anni di scolarizzazione per gli adulti di età pari o superiore e anni di scolarizzazione previsti per i bambini in età scolare. La dimensione del tenore di vita è misurata dal reddito nazionale lordo pro capite. L’HDI utilizza il logaritmo del reddito, per riflettere l’importanza decrescente del reddito con l’aumento dell’RNL. I punteggi per i tre indici di dimensione HDI vengono quindi aggregati in un indice composito utilizzando la media geometrica. L’HDI semplifica e cattura solo una parte di ciò che lo sviluppo umano comporta. Non riflette sulle disuguaglianze, la povertà, la sicurezza umana, l’empowerment, ecc. L’HDRO offre gli altri indici compositi come proxy più ampio su alcune delle questioni chiave dello sviluppo umano, della disuguaglianza, della disparità di genere e della povertà.

Ai nostri fini possiamo, tuttavia, utilizzare, il semplice HDI per effettuare delle analisi e vedere se le teorie della “decrescita felice” siano o meno corrette. Utilizziamo, in questo senso, lo strumento statistico della regressione lineare: se la retta di regressione ha pendenza positiva (ossia i dati vanno verso l’alto) abbiamo una relazione positiva tra le variabili (ossia se aumenta una allora aumenta l’altra); mentre se la retta di regressione ha pendenza negativa (ossia se la retta di regressione va giù) abbiamo una relazione negativa tra le due variabili (ossia se aumenta una allora diminuisce l’altra). Vediamo cosa ci dice la relazione tra PIL e aspettativa di vita a partire dal seguente grafico:

Continuando con altre misure, mostrate dai grafici qua sotto, la relazione si ripete:

Dal momento che, tuttavia, prendere il solo HDI potrebbe essere suscettibile di accuse di “bias” statistico, vediamo cosa succede se utilizziamo al suo posto il cosiddetto (e più specifico) Happiness Index:

Se, inoltre, guardiamo all’equità la relazione (negativa, ossia che all’aumentare del PIL la disuguaglianza si riduce) tra disuguaglianza e la crescita economica è ancora più chiara:

I dati insomma, al contrario di quello che Parisi (un ottimo fisico ma con delle idee alquanto discutibili in campo economico) sembrerebbero contraddire la storia della “decrescita felice”; dicendoci che rallentare non solo non è una soluzione ma anche una parte del problema.

E visto che Parisi nel suo discorso a Montecitorio si è lasciato andare a considerazioni economiche, prima di concludere, vorrei lasciarmi andare anche io su un tema più “sociale” (non di mia competenza) interrogandomi su quello che servirebbe affinché le previsioni di questa ideologia si avverino. La piccola questione che mi pongo è la seguente: assumendo per vero (anche se non lo è) che per vivere più felici occorra rinunciare a diversi punti di PIL, come si può ottenere tale risultato? Pensiamo che persone sarebbero disposte a rinunciare volontariamente agli standard di vita raggiunti dopo secoli di crescita economica? Oppure, forse, per raggiungere questa “decrescita” dovrebbero essere costrette da un potere estremamente autoritario a rinunciare a vivere in ambienti salubri, a godere di beni di consumo per soddisfare i propri bisogni, desideri aspirazioni, ad istruirsi e – in ultima analisi – ad essere felici (cosa cui costoro aspirerebbero)? La risposta a questa domanda penso sia chiara; ma personalmente non vorrei esserne partecipe né la vorrei vedere attuata in modo concreto, se non altro per non far incamminare né me né gli altri nella (troppo percorsa) Road to Serfdom di novecentesca memoria per ottenere una mitologica (ma non per questo meno pericolosa) decrescita (in)felice. 

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