Site icon EconomiaItalia

Disoccupazione tecnologica: i robot ci ruberanno il lavoro?

I miti e le leggende, si sa, sono duri a morire e, come gli abeti, godono di sempreverde sostegno da parte di tutti indipendentemente dalla casacca politica che indossa chi li propugna. Una di queste opinioni “sempreverdi” è il luddismo. Di che si tratta? Il luddismo è un movimento di protesta operaia, sviluppatosi all’inizio del XIX secolo in Inghilterra, caratterizzato dal sabotaggio della produzione industriale che – ritengono i sostenitori di questo movimento – “rubano” il lavoro agli operai salariati in quanto li sostituiscono nei processi di produzione. Ad oggi, il luddismo incontra dei sostenitori non troppo improbabili, come colui che ha scritto questo articolo, in cui si parlava del rapporto tra lavoro, crescita economica e occupazione citando il saggio dell’economista britannico John Maynard Keynes intitolato “Prospettive economiche per i nostri nipoti”. L’articolo, in breve, seguiva tale linea argomentativa (riassunta in un sillogismo di dubbia validità fatta dall’autore del post):

“La tecnologia è notevolmente avanzata, è così efficace che molti degli impieghi anche intellettuali vengono già delegati alle macchine. Quindi oggi, se lo stato investe, non significa, come nel 1930, che riesca a creare automaticamente lavoro sufficiente per tutti. Dipenderà dal settore. L’elemento più urgente che neanche Keynes aveva previsto: come facciamo a mandare questo motore a pieno regime utilizzando le risorse naturali come se non avessero limiti quando tutto indica il contrario? Qualsiasi attività economica, per sostenibile che sia, causa sempre un impatto irreversibile sull’ambiente. Se riusciamo a creare un enorme ricchezza senza creare il lavoro per tutti, come facciamo a contare su un numero sufficiente di consumatori e quindi lavoratori con salari stabili, elemento indispensabile per non rompere il meccanismo economico funzionale?”

Nell’articolo di oggi cercheremo di capire perché, e dove, i luddisti sbagliano nella loro analisi concentrandoci in primo luogo sulla teoria espressa nella precedente citazione e, in secondo luogo, estendendo l’analisi per parlare più in generale delle fallacie della teoria luddista. Cominciamo.

Il primo elemento per capire quale sia l’errore dei luddisti (ed in particolare, di colui che ha scritto il pezzo precedente) è, nei fatti, contenuto nella proposizione stessa quando si parla di “scarsità di risorse” e di “preferenze individuali”. Tale ragionamento presuppone da un lato che le preferenze degli individui siano fisse, immutabili nel corso dei secoli. Ma così non è: se noi analizziamo la storia economica, troviamo si delle esigenze immutabili dell’uomo (cibo, energia, protezione, salute) ma i modi per soddisfare queste esigenze cambiano. Pensiamo al vestirsi: non ci vestiamo nel 2021 come i nostri antenati nel medioevo, perché pur essendo rimasto il bisogno, sono cambiati i gusti, le preferenze, le tecnologie.

Se è vero che le preferenze degli individui sono mutevoli, né segue che vi è un secondo errore connesso a questo, ossia il considerare il lavoro come una “torta fissa” da dividere tra macchine e lavoro, come se fosse una sorta di “quantità” che esiste in se stessa, come se non fosse strumentale a qualcos’altro; un qualcosa che è un “output” e non – come in realtà è – un input (e cioè un fattore della produzione).  La differenza, come potete capire, è radicale. L’obiettivo di un sistema economico efficiente è massimizzare l’output e – se possibile – minimizzare l’impiego di input; per cui è totalmente fallace guardare alla sola occupazione (che pure è importante) come indicatore di un’economia in salute. Da questo ne segue che al mondo non ci sia una quantità di lavoro fissa da eseguire. Spesso chiamata come “fallacia del malloppo della manodopera”, questa asserzione economica porta avanti l’idea che i popoli del mondo abbiano bisogno solo di una quantità limitata di manodopera: quando questa quantità viene superata, non ci sarà più lavoro da fare e miliardi di lavoratori risulterebbero disoccupati. Coloro che abbracciano questa teoria sostengono, allora, che si dovrebbe limitare la produttività del lavoro diminuendo la quantità di capitale (nel nostro caso, macchine) per lavoratore perché se si lavora troppo si rischia che gli “insiders” (coloro che sono già entrati nel mercato del lavoro) mangerebbero le “fette” di lavoro degli “outsiders” (coloro che non sono ancora entrati nel mercato del lavoro). La falsità di questa visione è presto provata quando scopriamo che i desideri degli individui non hanno nei fatti un tetto ben definito che può essere raggiunto nell’immediato; dal momento che presupporre ciò (ossia presupporre che i desideri umani possano essere soddisfatti pienamente e per sempre) vorrebbe dire raggiungere un punto in cui la perfezione materiale, filosofica, spirituale ed estetica sia totalmente raggiunta; una sorta di paradiso in cui sparirebbe – paradossalmente – addirittura il problema della disoccupazione e della scarsità che i luddisti tanto avversano: che senso avrebbe, infatti, lavorare in un paradiso in cui non ci sia alcun bisogno di procurarsi il denaro necessario, visto che tutti i beni non sarebbero scarsi). Insomma, il lavoro da fare è tanto quanti sono i desideri umani che – di fatto – sono senza limiti rispetto alle risorse che servono per realizzarli: per quanto lavoro possano “rubare” le macchine esse non potranno mai esaurire il lavoro da fare. Anzi, l’introduzione di macchine produce due effetti: da un lato riduce i costi (aumento della produttività), dunque i prezzi e di conseguenza causa un aumento di domanda del prodotto, il che a sua volta determina un aumento derivato di domanda di manodopera (in sostanza l’aumento dell’occupazione derivante dall’allargamento della base produttiva compensa o più che compensa la diminuzione iniziale derivante dall’approfondimento della produzione via tecnologia); dall’altro i lavoratori che escono dal settore a più alta intensità di capitale si indirizzano alla produzione di altri beni: in questo modo il benessere complessivo aumenta perché aumentano i salari reali e dunque il potere di acquisto. In particolare, alcuni lavoratori verranno impiegati per la produzione dei nuovi beni capitali e nei nuovi lavori creati dalla tecnologia, che spesso sono anche qualitativamente superiori (mentre la tecnologia svolge quelli insalubri, pericolosi e fisicamente intensi prima svolti dall’uomo), producendo quindi un aumento del tenore di vita. Da cui ne segue che l’idea che le macchine possano “rubare” il lavoro agli uomini è sostanzialmente falsa e il fatto che, dopo un’innovazione tecnologica, vi sia un temporaneo aumento della disoccupazione non ci dice nulla sulle tendenze di lungo periodo della disoccupazione.

Ma la teoria, senza dati, è sterile. Per questo, presentiamo due interessanti studi al riguardo. Il primo, sintetizzato in un articolo del Sole24Ore, ci mostra delle cose molto interessanti, riassunte nei grafici qua sotto, ricavati dai dati della Bank Of England:

Quelli mostrati nel primo grafico sono la produttività del lavoro (a sinistra) e la percentuale di occupati rispetto al totale della popolazione (nel grafico di destra) per un periodo che va dal 1750 (anno approssimativo della Prima Rivoluzione Industriale) al 2013, mentre nella seconda figura osserviamo a sinistra le ore di lavoro settimanali per UK e Stati Uniti, mentre a destra osserviamo il tasso di crescita della popolazione e il tasso di crescita dell’occupazione per UK e Stati Uniti (entrambi i grafici sono riferiti al periodo 1856-2013). Sintetizzando le informazioni che sono contenute in questi due grafici, possiamo dire sostanzialmente che:

Il che ci dice, come correttamente nota l’autore dell’articolo sul Sole24Ore che:

“Nel lungo periodo, il progresso tecnologico è il principale fattore che determina la crescita economica.

Dalla Prima Rivoluzione Industriale (1770 – 1830) ad oggi, la tecnologia ha creato più posti di lavoro di quelli che ha distrutto.

La transizione verso sistemi di produzione sempre più complessi ha segnato l’inizio di una nuova epoca, caratterizzata da: concetto smithiano di “divisione del lavoro”, idea schumpeteriana di “distruzione creativa”; immensa crescita della produttività lavorativa; rapida diminuzione delle ore di lavoro settimanali; crescita senza precedenza dei salari reali”.

Intuizioni, queste, confermate anche da un apposito studio del World Economic Forum, in cui si giunge alla medesima conclusione secondo cui la tecnologia, oltre a rendere necessarie nuove figure professionali, tende ad aumentare la produttività, stimolare l’economia e creare nuovi posti di lavoro nei settori in espansione che beneficiano delle innovazioni.

Conclusioni, queste, che già di per sé stesse getterebbero una sostanziale pietra tombale sulle preoccupazioni dei nostrani Ned Ludd.

Tuttavia, dal momento che una sola rondine – come si suol dire – non fa primavera, occorre approfondire di più la questione. E lo fa, in questo senso, un articolo dell’Osservatorio dei Conti Pubblici italiani di Carlo Cottarelli, in cui viene approfondito il tema della cosiddetta “disoccupazione tecnologica”. Questo studio, rispetto all’articolo del Sole24Ore (che rimane comunque ottimo), ha il vantaggio di essere relativamente più recente, il che vuol dire che le sue conclusioni possono essere più spendibili sul piano pratico per valutare l’accuratezza o meno della teoria.  L’articolo in parola ci mostra, innanzitutto, come già ad una prima analisi dei dati la correlazione tra innovazione (misurata come numero di robot ogni 100mila abitanti) ed innovazione sia sostanzialmente inesistente:


Cionondimeno, sebbene sia vero che nel lungo periodo non esista una relazione tra disoccupazione, è allo stesso modo vero che a causa del progresso tecnologico alcune figure professionali tenderanno a scomparire. In particolare, come anche riporta il summenzionato articolo dell’Osservatorio, J. Rifkin argomenta che a “perderci” – perlomeno nel breve periodo – saranno quelle fasce di lavoratori anziani che possono essere difficilmente riqualificate in impieghi che richiedono una maggiore intensità di capitale (e quindi di tecnologia) e suggerendo – inoltre – che per vedere quali sono le dinamiche di transizione dell’occupazione influenzate dalla tecnologia occorra guardare ai concetti di “complementarietà” e “sostituzione”. Come riporta l’articolo dell’Osservatorio, infatti,

“Il primo è l’effetto più comunemente citato, cioè la capacità di certe macchine, robot o persino software di sostituirsi alle persone per certe mansioni. Gli esempi classici sono il dipendente allo sportello bancario che viene sostituito dall’internet banking o l’operaio nella catena di montaggio rimpiazzato da una macchina utensile. Tuttavia, non è detto che tali cambiamenti portino complessivamente ad un aumento della disoccupazione. Infatti, l’avanzamento tecnologico ha anche un effetto di complementarietà sull’occupazione. Questo meccanismo si basa sulle nuove mansioni che accompagnano l’innovazione, creando nuovi posti di lavoro e contrastando l’effetto di sostituzione. Riprendendo gli esempi precedenti, si può pensare a una serie di lavori complementari alla digitalizzazione delle banche, dai programmatori del sito web agli addetti alla manutenzione dei server. Lo stesso discorso vale per i robot in fabbrica, che richiedono comunque processi di pianificazione, produzione, e manutenzione che debbono essere eseguiti da nuove figure professionali”.

Ed è in questo senso che si spiegano le differenze che sussistono tra i “guadagni” (non solo in termini di posti di lavoro, ma anche in termini di remunerazione) tra posizioni a medio-basso valore aggiunto e medio-alto valore aggiunto: se le prime, in effetti, sono correlate a mansioni molto ripetitive e che tipicamente non richiedono un alto grado di intensità tecnologica, le seconde sono al contrario correlate ad un uso più massiccio delle nuove tecnologie. Infatti, come argomenta lo studio dell’Osservatorio,

“[…] stando a quanto rilevato già da David Autor nel 2015, questo non si verifica. Al contrario, i salari dei lavoratori altamente e mediamente qualificati crescono, seguendo una dinamica simile, mentre quelli dei lavoratori a bassa qualificazione sono stabili e talvolta diminuiscono. Secondo Autor, la dinamica salariale si distingue in modo così accentuato rispetto a quella dell’occupazione per diversi motivi. In particolare, le due motivazioni più accreditate dall’economista statunitense sono il livello di complementarietà del lavoro umano rispetto ai robot e l’elasticità della domanda rispetto ai cambiamenti nei prezzi. Per quanto riguarda la complementarietà, sono solo i lavoratori altamente qualificati a trarre giovamento da un reale aumento della propria produttività grazie all’introduzione di tecnologie che ne facilitano il lavoro, coadiuvandoli ad esempio nei processi di elaborazione di informazioni. Al contrario, i lavoratori con bassa qualificazione sono coinvolti in attività più semplici in cui l’aiuto proveniente dall’automazione migliora solo marginalmente la produttività.  Questo è ciò che viene definito in letteratura con il termine anglosassone “Skill-biased technical change”, ovvero sviluppo tecnologico a favore del lavoro qualificato. Come argomentato da Giovanni Violante dell’Università di Princeton, questo fenomeno consiste, appunto, in variazioni della tecnologia dei sistemi produttivi che favoriscono il lavoro qualificato rispetto a quello non qualificato attraverso un aumento di produttività per la prima categoria. I lavoratori ad alta qualificazione, dunque, hanno potuto beneficiare di un aumento della domanda per il proprio lavoro, data la riduzione dei costi per unità di prodotto dovuta all’introduzione di nuove tecnologie. Per i lavoratori a bassa qualificazione, invece, si è assistito ad un modesto incremento della domanda che è stato accompagnato da una diminuzione nei prezzi dei beni prodotti da questi lavoratori e ciò proprio a causa dell’introduzione dei robot. L’effetto netto di una maggiore domanda e di prezzi calanti dei prodotti è stata la sostanziale stagnazione dei salari per questa tipologia di occupati”.

Il tutto confermato dal grafico presentato di seguito:

Insomma, la conclusione che possiamo trarre dai dati, coerentemente con la teoria economica, è che i robot non ci rubano il lavoro e che – a dispetto di quanto molti sostenitori di alcune teorie economiche che propugnano idee di “decrescita felice” (semmai possa esisterne una) – anzi li creano. La vera sfida rimane, tuttavia, nella riqualificazione della forza lavoro; un tema che già oggi è di capitale importanza per evitare lo “scoordinamento” di competenze richieste dalle imprese e quelle offerte dai lavoratori. Ma di questo ne parleremo in un altro articolo…

Puoi continuare a seguirci su https://t.me/economiaitalia per altri articoli

Exit mobile version