Economia, Scienze economiche

Flexsecurity, la via d’uscita “nordica” dalla disoccupazione?

La recente vicenda che vede i rider (fattorini dotati di mezzi di trasporto che ricevono un ordine di consegna attraverso una piattaforma digitale che vanno a prendere il prodotto ordinato dall’azienda e lo consegnano al domicilio del cliente) protagonisti di una vicenda giudiziario-mediatica riguardante le condizioni di trattamento di lavoro. La soluzione trovata da parte della procura di Milano è stata quella di regolarizzare la situazione contributiva di 60mila riders che sono occupati in aziende come Uber Eats, Glovo, Deliveroo e Just Eat.

Il problema, come intuibile, è riconducibile ad un tema più ampio che coinvolge il mercato del lavoro; un tema – questo – che abbiamo già trattato in un altro post ma che possiamo calare anche nel tema specifico. Come abbiamo già detto, quello italiano è un mercato molto rigido caratterizzato da un alto costo del lavoro su cui pesa molto il cuneo fiscale. Questa situazione non è nuova: già nel 2017, il cuneo fiscale, secondo la Corte dei Conti nel “Rapporto 2017 sul coordinamento della finanza pubblica, riferito alla situazione media d’un dipendente dell’industria italiana, colloca al livello più alto la differenza tra il costo del lavoro ed il reddito netto che rimane in busta paga al lavoratore: il 49,2 % prelevato a titolo di contributi (su entrambi) e di imposte (a carico del lavoratore) eccede di ben dieci punti l’onere che si registra mediamente nel resto d’Europa. Sempre secondo la magistratura contabile, accanto ad una pressione fiscale tra le più elevate dei paesi UE (42,9 % del PIL), il total tax rate, stimato per un’impresa di medie dimensioni, testimonia un carico fiscale complessivo (societario, contributivo, per tasse ed imposte indirette) che penalizza l’operatore medio italiano in misura (64,8%) eccedente quasi venticinque punti l’onere per l’omologo imprenditore dell’area UE/EFTA. Sul lavoro pesa sempre un certo peso (cuneo fiscale) e la retribuzione netta dipenderà anche da quanto e da come questo cuneo è ripartito tra lavoratore ed impresa. Se, infatti, un’azienda che paga ad esempio 1500 euro netti mensili, ne paga almeno altri 1500 in imposte varie, di conseguenza un dipendente costa almeno 3000 euro al mese pur ricevendo, di retribuzione netta, solo la metà. Va da sé, quindi, che anche i costi d’adempimento degli obblighi tributari che il medio imprenditore sarà chiamato ad affrontare si faranno sempre più significativi; facendo aumentare vertiginosamente i costi d’assunzione e facendo, conseguentemente, aumentare la disoccupazione. Di conseguenza si avranno delle perdite tanto per i lavoratori (che saranno senza un’occupazione) e per gli imprenditori (che hanno perso dei potenziali clienti per il futuro, visto che la mancanza di un lavoro aumenterà la propensione al risparmio; poiché il reddito inesistente alzerà il vincolo di bilancio dei lavoratori distruggendo la domanda e – di conseguenza – anche la conseguente offerta di beni). Per sopravvivere, le imprese cercheranno di assumere persone senza garanzie che, però, garantiscano una forza lavoro sulla quale contare sempre. La presenza in molti Stati di un grande numero dei precari, in questo senso, è illuminante: da una parte ci sono, appunto, i precari (che vengono impiegati con contratti temporanei e con scarsissime garanzie) e dall’altro i lavoratori del mercato tradizionale protetti dai cartelli sindacali (che offrono loro il veicolo preferenziale attraverso il quale far passare le leggi a loro più favorevoli). Il messaggio per gli imprenditori è chiaro: assumere a rotazione precari (o altre persone che scelgono di fare lavori occasionali) da non far entrare nel mercato tradizionale.

Rendere il mercato del lavoro più efficiente, quindi, potrebbe aiutare a risolvere il problema dal lato dei precari ma si pone – a questo punto – il problema di tutelare non tanto i posti di lavoro quanto – piuttosto – i lavoratori. Come fare? Una soluzione interessante ci viene dal modello della cosiddetta “flexsecurity” danese, di cui andremo a parlare brevemente. Si definisce “flexsecurity” quella

“Strategia politica che si propone di favorire, nello stesso tempo, la flessibilità del mercato del lavoro e la sicurezza sociale, soprattutto a vantaggio delle categorie più deboli dei lavoratori”. 

Il modello danese affonda le sue radici nel XIX secolo, quando i negoziati tra datori di lavoro e sindacati durante il cosiddetto “compromesso di settembre” del 1899 (chiamato anche Costituzione del mercato del lavoro) hanno gettato le basi per uno Stato che agisca in un modo reciprocamente vantaggioso (redditizio e sicuro) in virtù del quale da un lato viene garantita la libertà dell’associazione sindacale e la prerogativa manageriale di gestire e dividere il lavoro, compreso il diritto di assumere e licenziare la forza lavoro in qualsiasi momento necessario; dall’altro vengono offerte delle indennità di disoccupazione generose che sono accompagnate da politiche attive del lavoro in virtù delle quali se le autorità danesi trovano un lavoro per il disoccupato e costui lo rifiuta allora perde il sussidio; e sebbene le aliquote in Danimarca siano alte e molto progressive (e gravano quindi molto, almeno in linea di principio, sul contribuente) e proprio perché il modello danese è efficiente nel prevenire il moral hazard dei soggetti disoccupati (e soprattutto perché questi disoccupati non rimangono tali per molto tempo), una strutturazione di questo tipo del mercato del lavoro consente non solo una maggiore produttività (come ci dice uno studio di Acemoglu e di Shimler in merito ma anche una minore disoccupazione ed allo stesso tempo una minore esclusione dal mercato del lavoro di soggetti tradizionalmente considerati “deboli” (basti pensare che il tasso di disoccupazione in Danimarca è stato – nel dicembre 2020 – pari al 4,5% per gli uomini ed al 4,6% per gli uomini.

Spesso si dice che efficienza ed equità siano antitetiche. L’esempio della Danimarca ci dice, al contrario, che con politiche ben congegnate e dei mercati non troppo regolamentati, perseguire entrambi gli obiettivi non solo è necessario ma anche possibile.

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