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Gender Pay Gap: e se la risposta fosse la concorrenza?

Oggi, otto marzo 2021, si celebra il 99esimo anniversario – in Italia – della giornata internazionale della donna. Sebbene nel corso di questo secolo i progressi fatti dalla società sono stati innumerevoli, alcune questioni sembrano essere rimaste irrisolte come, ad esempio, l’uguaglianza di genere in termini economici (un tema, questo, divenuto vieppiù attuale nei giorni nostri). Prima di cominciare a presentare le risposte che la scienza economica ha dato a questo fenomeno, diamo qualche numero. Un indicatore interessante, a livello globale, in merito a questo fenomeno è il Global gender gap index il quale mostra l’indice globale del divario di genere dei primi 50 paesi per il 2020. L’Indice confronta i divari di genere nazionali in base a criteri economici, politici, educativi e sanitari e che vede – per il 2020 – l’Islanda quale paese in testa alla classifica con un punteggio di 0,87. Sebbene l’indice in questione vada a riguardare un ampio spettro di fattori, per quanto riguarda l’Italia, invece, possiamo fare un’analisi più specificatamente economica della questione. In primo luogo il cosiddetto “gender pay gap”, che in Italia – nel 2019 ammonta annualmente circa tremila euro in meno rispetto agli uomini. Tuttavia, il divario retributivo di genere è diminuito negli ultimi anni. Nel 2019 era circa l’11% a favore degli uomini, mentre la differenza nel 2016 era pari al 12,7%. Differenze, tuttavia, devono essere fatte per quanto riguarda settore economico, classe sociale di riferimento e regione geografica. Ad esempio, a livello regionale ci sono delle differenze di salario importanti tra Nord e Sud importanti che hanno un significativo impatto nella determinazione del divario salariale. Non solo, a livello di settore economico ci sono delle eterogeneità importanti: nel settore automotive, ad esempio, il divario è molto attenuato, altri settori – come l’assicurativo  ed il bancario mostrano un divario molto più elevato ed altri – come il settore delle costruzioni – che mostrano un trend a favore delle donne nel divario salariale. Anche l’istruzione e la posizione sociale sembrano avere un peso importante in questo fenomeno e, sebbene il tasso di impiego femminile in posizioni chiave nelle maggiori imprese sia rimasto sostanzialmente stabile.

Come spiega la teoria economica l’esistenza di un divario di genere all’interno del mercato del lavoro relativamente alla retribuzione? Un buon modello che fornisce la risposta a questa domanda è la teoria elaborata da Thomas Becker nel suo articolo per la rivista “Social Forces”(Volume 37, Issue 2) intitolato “The economics of discrimination”, con il quale tentava di dare una risposta al problema inquadrandolo in un contesto cosiddetto “competitivo”, ossia in un framework all’interno del quale sia concepito un comportamento di massimizzazione di una funzione di utilità individuale che può includere la discriminazione. In questo modello, i datori di lavoro hanno un “gusto per la discriminazione”, il che significa che c’è un valore di “disutilità” nell’assumere lavoratori appartenenti ai gruppi di minoranza. Quindi, i lavoratori delle minoranze potrebbero dover “compensare” i datori di lavoro essendo più produttivi a un dato salario o, in modo equivalente, accettando un salario inferiore per una produttività identica. La conclusione del modello di Becker è che in un mercato con basse barriere all’entrata o caratterizzato da imprese con ritorni di scala costanti, questi datori di lavoro potrebbero essere messi fuori gioco. In un mercato competitivo, ogni lavoratore deve guadagnare il suo prodotto marginale. Sotto CRS, le imprese non discriminatorie si espanderanno semplicemente per arbitrare il differenziale salariale generato dai lavoratori delle minoranze. In equilibrio, i datori di lavoro discriminanti devono finanziare di tasca propria il costo del proprio disgusto; non possono trasferire il costo sui lavoratori appartenenti alle minoranze. Come si adatta questo modello alla realtà del mercato del lavoro femminile? I risultati sembrano contrastanti. Uno studio del National Bureau of Economic Research. La strategia empirica adottata in questo studio sfrutta le differenze nella struttura del mercato tra i settori per identificare l’impatto della concorrenza sul divario salariale di genere: poiché le industrie concentrate subiscono poca pressione competitiva per ridurre la discriminazione, un aumento della concorrenza dovuto all’aumento del commercio dovrebbe portare a una riduzione del divario salariale di genere. Confrontiamo la variazione del divario salariale di genere residuo tra il 1976 e il 1993 nelle industrie manifatturiere concentrate rispetto a quelle competitive, utilizzando quest’ultimo come controllo per i cambiamenti nel divario salariale di genere che non sono correlati alle pressioni concorrenziali. Troviamo quindi che – secondo questo studio – l’aumento della concorrenza attraverso il commercio abbia contribuito al miglioramento relativo dei salari femminili in settori concentrati rispetto a quelli competitivi, suggerendo che, almeno in questo senso, il commercio può avvantaggiare le donne riducendo la capacità delle imprese di discriminare. Il modello di Becker, inoltre, si adatta molto bene nello spiegare le differenze di salario tra diverse etnie. Altri approcci suggeriscono, tuttavia, che le conclusioni di Becker valgano solo sotto strette ipotesi che non sempre si verificano.

Un tema complesso, quello del gender pay gap, che comunque dovrebbe essere affrontato in modo scevro da ideologismi e posizioni estreme prediligendo – al contrario – un approccio pragmatico e moderato per il raggiungimento di conclusioni e soluzioni corrette.

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