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Giappone e la politica fiscale: confronto con Italia

Il Giappone si trova al largo delle coste coreane ed è uno dei paesi più orientali dell’Asia continentale. È costituito dalle quattro principali isole che rappresentano da sole circa il 97% dell’intero territorio. “Il paese del sol levante” è la terza economia più grande del mondo con un GDP pari a 5 mila miliardi di dollari USA nel 2019, un valore che rappresentava il 4,22% dell’economia globale. Inoltre, è uno dei più grandi investitori in ricerca e sviluppo (R&S) al mondo, infatti nel 2019 sono state stanziate risorse pari al 3,28% del GDP. Demograficamente si presenta come il paese con l’aspettativa di vita alla nascita maggiore: 84 anni.

Dall’altra parte del mondo c’è l’Italia, un paese che arranca in condizioni stagnanti ormai da decenni e che non riesce a vedere la luce in fondo al tunnel delle crisi economiche.

Due nazioni che sono molto distanti, oltre che geograficamente, per cultura, tradizione, storia ed economia, forse solo accomunabili da alcune caratteristiche demografiche come la speranza di vita molto elevata.

Questo articolo rappresenta l’inizio di una serie che si propone di sviscerare e confrontare queste due realtà lontane, soffermandosi sulle dinamiche economiche del Giappone e smentendo alcune false dicerie. Infatti, troppo spesso sovranisti e malinformati indicano il Giappone come modello a cui ambire per uscire dall’impasse economico che da decenni attanaglia il bel paese. Vengono ad esso attribuiti falsi miti, soprattutto per quanto riguarda la politica monetaria, e vengono altresì trascurati problemi strutturali che potranno avere ripercussioni nel medio lungo termine.

Politica Fiscale: due realtà con problemi diversi

“Facciamo come il Giappone”: è questo l’ormai troppo inflazionato mantra che viene ripetuto nei dibattiti di politica economica in cui si avanzano proposte alquanto discutibili in merito alle politiche fiscali e monetarie. Nelle menti di coloro che sostengono certe posizioni, il “modello giapponese” dovrebbero essere implementato anche in Europa ed in particolare in Italia.

Prima d’analizzare la situazione del debito pubblico dobbiamo chiarire alcuni concetti fondamentali, come quello di sostenibilità del debito e di “spazio fiscale”. Un debito viene definito “sostenibile” quando le spese pubbliche coperte dall’indebitamento consentono di generare un tasso di crescita dell’economia nazionale pari o superiore al tasso di interesse riconosciuto sui titoli di stato. Infatti, in caso di crescita economica il maggiore reddito nazionale permette di ottenere un aumento del gettito fiscale tale da potere regolare gli interessi sul debito pubblico senza dover aumentare le aliquote di imposta e la pressione fiscale sui contribuenti e sulle generazioni future.

Lo spazio fiscale altro non è che “la differenza tra l’obiettivo di budget strutturale – vale a dire il budget annuale in percentuale sul Pil al netto dei fattori ciclici che un Paese dovrebbe avere al fine di centrare gli Otm – e il budget strutturale effettivo stimato per un certo anno. Lo spazio fiscale dipende non solo dal livello di debito complessivo, ma anche dal ritmo con cui un’economia sta progredendo verso l’obiettivo di medio termine. Per questo la Grecia, pur essendo più indebitata, ha significativamente più spazio fiscale dell’Italia”.

Come mostrato dal seguente grafico uno dei dati che balza all’occhio osservando il contesto economico giapponese è il livello di indebitamento pubblico che si attesta nel 2018 al 238% del GDP. .

Tuttavia, come ci dicono i dati OECD la spesa pubblica su GDP è relativamente bassa se confrontata all’Italia (38% del GDP, contro il 48% dell’Italia) ed inoltre sia il cuneo fiscale sia altre tipologie di tasse (come l’imposta sul reddito; o sui salari,) sono inferiori rispetto all’Italia, per cui il debito viene reso sostenibile dal fatto che – nel caso vi fosse necessità – si possa aumentare l’imposizione fiscale per poterlo sostenere. Come commenta anche questo articolo de “Il Foglio”, rispetto a questo tema:

Nell’eventualità di una crisi, il governo nipponico disporrebbe di un margine di manovra più elevato del nostro. In altre parole, ci sarebbe ancora spazio per aumentare la pressione fiscale: da noi, una simile operazione sarebbe molto costosa sia dal punto di vista degli impatti sulla crescita sia dal punto di vista politico. Allinearsi con il Giappone implicherebbe, pertanto, una massiccia spending review, mai messa in atto finora.

Vi è un’ultima questione da considerare in merito alla sostenibilità del debito giapponese: la fiducia e le aspettative. Come la macroeconomia ci insegna da molti anni, infatti, gli esseri umani non possono avere alcuna conoscenza certa del futuro; la capacità predittiva, anche degli imprenditori, è quindi molto limitata. Per cui la fiducia sul fatto che una controparte sia solvibile è estremamente importante nel determinare le grandezze economiche (nel caso del Giappone, il costo del debito) che la riguardano. Ciò sembrerebbe confermato dai dati OCSE, visto che l’indicatore della fiducia nel governo giapponese si attesta al 3,5%, dietro la Corea del Sud e dell’Irlanda, mentre l’Italia si attesta all’1,5%. L’indicatore in parola si riferisce alla percentuale di persone che dichiarano di avere fiducia nel governo nazionale. I dati mostrati riflettono la percentuale di intervistati che hanno risposto “sì” (le altre categorie di risposte sono “no” e “non so”) alla domanda del sondaggio: “In questo paese, hai fiducia nel governo nazionale? Nello specifico, come anche riporta questo commento di Carlo Cottarelli, non ha senso portare dei paragoni tra Italia e Giappone dal momento che: 

“Le entrate e la spesa primaria dello stato italiano sono circa dieci punti del GDP più alte di quelle giapponesi. Mentre sarebbe difficile per l’Italia portare le entrate molto al di sopra del livello attuale, questo sarebbe molto più facile per il Giappone che ha entrate fiscali che si aggirano attorno al 35% del PIL. Infine, il Giappone è uno dei paesi con la più elevata posizione netta in rapporto PIL (60%); data la tendenza dei risparmiatori a comprare titoli domestici (cosiddetta “home country bias”), il fatto che il Giappone non debba prendere a prestito dall’estero facilita il finanziamento del debito giapponese. […] In una delle sue tante brillanti intuizioni, John Maynard Keynes spiegò che la crisi si manifesta nel momento in cui il contribuente non accetta più di pagare tasse extra per soddisfare le richieste del “rentier”, ossia per far fronte alla accresciuta spesa per interessi. Gli investitori non si preoccupano se sanno che lo stato potrà far fronte alla spesa per interessi aumentando le tasse o anche riducendo le spese. Altrimenti, ha buoni motivi per preoccuparsi, specie se il livello del debito è elevato e l’avanzo primario non è sufficiente per determinarne una tendenza alla riduzione in rapporto alla dimensione dell’economia. La situazione è più grave quando il tasso d’interesse è persistentemente maggiore del tasso di crescita dell’economia: questa situazione genera il cosiddetto “effetto palla di neve”, ossia l’accumulo di debito per effetto dell’interesse composto, che obbliga a tenere un livello più elevato dell’avanzo primario”.

Questo insieme di elementi rende la situazione fiscale del Giappone più sostenibile di quella italiana, questo lo si può riscontrare anche confrontando i differenziali dei tassi di interesse a lunga scadenza sul debito. In particolare, il Giappone paga interessi più bassi riuscendo a finanziarsi sui mercati ad un costo inferiore. È importante ricordare che la differenza è data dalle diverse aspettative che i player hanno sulle probabilità di adempimento dei due sistemi e quindi sulla sostenibilità stessa.

Per concludere, abbiamo visto le motivazioni che spingono gli investitori a ritenere il debito pubblico giapponese maggiormente sostenibile rispetto a quello italiano, tuttavia l’enorme peso del debito rischia di schiacciare un paese stabile come il Giappone. Infatti, negli ultimi anni la tassazione su GDP ha seguito un trend crescente passando dal 25% al 30% del GDP, diminuendo di fatto lo spazio di manovra attuabile in caso di crisi di solvibilità.

Insomma, non è tutto oro quel che luccica, non basta fare spesa pubblica per crescere nel lungo termine, né tantomeno è possibile stampare moneta per finanziare il debito stesso, come invece millantato da pseudo economisti. Cosa, quest’ultima, che per altro non viene fatta nemmeno dal Giappone stesso, ma di questa bufala ce ne occuperemo nel prossimo articolo.

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