Energia e Green Economy, Marketing

Greenwashing, The Fool: Italiani sempre più attenti

Sempre più italiani si interessano del tema “greenwashing”, cioè la corsa alla sostenibilità di facciata che svuota di significato le attività concrete e reali per offrire ai consumatori prodotti davvero green, chiedendo coerenza tra il dichiarato e l’agito. Nell’ultimo anno il tema ha guadagnato sempre più spazio e i volumi delle discussioni online intorno al greenwashing sono aumentati del 73% rispetto al 2021, e come conseguenza solo il 2% degli italiani dichiara di fidarsi completamente di quanto dichiarano i brand circa il loro impegno per ridurre il loro impatto ambientale, inoltre le false dichiarazioni di sostenibilità o di impegni ambientali sono il primo disincentivo all’acquisto di un brand per quasi un italiano su due (48%).
Questi alcuni dati che emergono dalla ricerca realizzata da The Fool utilizzando, insieme a Brandwatch e GWI, la piattaforma Audiense di cui l’azienda è partner e reseller esclusivo in Italia.

L’attenzione al greenwashing sta diventando mainstream

Dai dati emerge che i discorsi sul greenwashing non sono più confinati alle community più attente e attiviste, il tema è infatti diventato mainstream, un cambio di passo che è avvenuto in meno di 12 mesi.

Aziende e istituzioni fanno leva su strategie di comunicazione per apparire più ‘verdi’ di quanto siano effettivamente, in cui attività, prodotti e servizi sono presentati come sostenibili dal punto di vista ambientale e si cerca di nasconderne l’impatto negativo sul pianeta. Così si crea una società divisa, tra aziende a cui va riconosciuto l’impegno sul tema e altre che preferiscono investire su una comunicazione che non viene confermata dalla cruda realtà.

Chi parla oggi di greenwashing in rete in Italia?

A parlare di greenwashing sono soprattutto laureati che abitano in grandi città (Milano, Roma e Torino) e i più interessati appartengono alla fascia 18-24 anni.

Un futuro più verde quindi, ma con giudizio. Non basta colorare le confezioni o ridurre la plastica degli imballaggi. I consumatori sempre più informati cercano una svolta davvero green e quando si accorgono che alle parole non seguono fatti, indirizzano le loro scelte d’acquisto verso altri brand.

Se nel 2021 la discussione online sul tema proveniva prevalentemente da 3 categorie di utenti – individuate a seconda di interessi, followgraph, tratti psicografici e, programmi tv/radio seguiti – ovvero gli Attivisti (21%) già impegnati personalmente su temi “green”, i Cosmopoliti (35%) che seguono con interesse i temi di politica e attualità e i “Green Finance” (40%) cioè impiegati o manager interessati al tema dal punto di vista del business – in soli 12 mesi altre due categorie si sono delineate all’interno della discussione.

È anche a causa dello sdoganamento del tema all’interno delle categorie dei “Digitalisti”, ossia coloro che vivono la loro quotidianità online e che non disdegnano l’ibridazione delle proprie passioni con tematiche smaccatamente di marketing e degli “Screen Addicted” che le discussioni hanno fatto segnare un +73% anno su anno, con una “rumorosa” entrata in scena di questi ultimi due nell’arena del dibattito online.

La relazione con i brand e con il loro impegno a livello ambientale

La Corporate Social Responsibility è oggi un tema di grande attualità, in quanto l’influenza che esercita sull’ambiente, sulla società e sulle community influisce in modo significativo sulla reputazione di un’azienda.

C’è un forte desiderio di pratiche aziendali più concrete e trasparenti. I consumatori vogliono che le aziende diano il loro contributo reale alle comunità locali, alla beneficenza, ai loro dipendenti e che influenzino positivamente l’ambiente.

Il lavoro da fare da parte delle aziende è tanto, se si considera che attualmente quasi nessun italiano si fida totalmente dei brand e del loro impegno (il 68% dichiara “poca fiducia” e l’8% addirittura nessuna fiducia, a fronte del 22% che si fida molto e solo il 2% che si fida completamente.
Il greenwashing inoltre risulta la prima motivazione a non acquistare da un brand (48%), addirittura davanti a scarso tracciamento (42%) e mancanza di trasparenza nella supply chain (41%).