Giurisprudenza

Il processo a distanza nei procedimenti di criminalità organizzata: gli articoli 146 e 147 disp. att. c.p.p.

La disposizione contenuta nell’art. 146 bis disp. att. c.p.p., a cui si ricollega inevitabilmente l’art. 147 disp. att. c.p.p., delinea un sistema volto a garantire la partecipazione al dibattimento di quei soggetti che non si trovano fisicamente nell’aula di udienza.

Questa norma, emanata subito dopo la strage di Capaci con il D.L. 306/1992, aveva il fine di tutelare la sicurezza dei soggetti ammessi ai programmi di protezione. La ratio è, quindi, quella di creare un sistema processuale parallelo a quello ordinario, in grado di fornire una risposta più efficace rispetto alle fattispecie riconducibili alla criminalità organizzata, con strumenti processuali in grado, per un verso, di dotare lo stato di un apparato investigativo-repressivo più efficace, ma anche idonei a fronteggiare quelle esigenze di sicurezza e protezione che sono particolarmente pregnanti nell’ambito del fenomeno dell’associazionismo mafioso.

L’uso della tecnologia è quindi giustificato dal fine di ovviare possibili condizionamenti da parte delle organizzazioni criminali sulle attività processuali, ma allo stesso tempo emerge la necessità di limitare effetti dirompenti che avrebbero snaturato gli ordinari assetti del processo penale, e che gli aspetti ‘virtuali’ si avvicinino quanto più possibile a quelli ‘reali’, che comunque non determinino una privazione delle linee tipiche del procedimento ordinario, con il consequenziale rischio di compromissione di alcuni diritti fondamentali.

Le ragioni che hanno portato all’adozione di tale normativa, sono molteplici, tra cui il classico fine di contrastare e frenare il c.d. gigantismo processuale, tipico nei procedimenti per criminalità organizzata caratterizzati da varie connessioni, e da un elevato numero di imputati ed imputazioni. La presenza, infatti, di imputati interessati in più procedimenti, a diverso titolo ma che vantano il loro diritto di partecipare ai dibattimenti che li toccano in prima persona, porterebbe ad una deroga del principio di ragionevole durata del procedimento, in quanto si andrebbe a richiedere un rinvio dell’udienza.

Il regime previsto dall’art. 146 bis disp. att. c.p.p., così come modificato dalla legge n. 103 del 23 Giugno 2017, conosciuta come ‘Riforma Orlando’, sancisce che la persona che si trova in stato di detenzione per uno dei delitti riconducibili alla criminalità organizzata, partecipa a distanza alle udienze dibattimentali dei processi nei quali è imputata, anche relativi a reati per i quali sia in libertà. Le stesse modalità vengono utilizzate per le udienze civili e penali nelle quali deve essere esaminata la stessa persona come testimone, e per le persone ammesse a programmi o misure di protezione.

Il giudice può derogare a questa norma disponendo con decreto motivato la presenza alle udienze, non può essere applicabile tale deroga nel caso in cui siano state applicate le misure ex art. 41 bis. Può disporre con decreto motivato anche l’udienza a distanza se il processo è complesso o per evitare, quindi, ritardi nel suo svolgimento.

Un’altra motivazione è quella di evitare anche il c.d. fenomeno del turismo giudiziario, in quanto così facendo si ovviavano gli spostamenti di imputati e collaboratori di giustizia che richiedono un ingente dispiego di forze dell’ordine per i servizi di scorta e di accompagnamento, nel rispetto altresì del principio di economia processuale.

Prima della riforma del 2008 che aveva inserito il sistema della partecipazione a distanza e la relativa disciplina, tale scelta era rimessa ad una valutazione discrezionale del giudice, che valutava il caso concreto anche contestualizzandolo con le particolari situazioni di ordine pubblico e sicurezza. Viene adottata, in questo modo, una presunzione di pericolosità ‘ope legis’ di tali imputati, sulla scia di quella prevista per le misure cautelari. L’unico caso in cui è obbligatoria la partecipazione a distanza, prevista già prima della legge del 2008 era per i detenuti sottoposti alle misure dell’art 41 bis, con la ratio di evitare che con la partecipazione personale al processo tali soggetti possano rispristinare i rapporti con l’associazione di appartenenza.

La riforma del 2008 sanciva anche l’entrata dell’art. 146 bis nel regime ordinario dei procedimenti, non è più, quindi, uno strumento tipico del regime del ‘doppio binario’, ma è esteso anche ai reati comuni per i quali la scelta rimane al giudice, mentre per i reati di criminalità organizzata il meccanismo diventa obbligatorio eliminando la discrezionalità del giudice.

Similitudini con la presunzione assoluta prevista dall’art. 275 c.p.p., demolito dalla Corte Costituzionale, la partecipazione fisica e personale al processo per l’accusato rappresenta un diritto presidiato da garanzie costituzionali e sovranazionali.

La ripercussione, o deroga, maggiore è quella che si rinviene sul diritto di difesa materiale del soggetto sottoposto a processo a distanza, in quanto sarebbe la persona più indicata per ricostruire i fatti per i quali è in giudizio.

Nel momento in cui si ragiona sull’art. 146 bis disp. att. c.p.p. non si può non trattare, anche, l’art 147 bis disp. att. c.p.p., con cui si manifesta l’ulteriore esigenza di scongiurare il rischio di possibili atti intimidatori nei confronti dei soggetti coinvolti nel procedimento: nei processi di criminalità organizzata, le associazioni di stampo mafioso ricorrono frequentemente all’utilizzo di metodi e tecniche intimidatorie al fine di spingere i soggetti coinvolti nel procedimento a tirarsi indietro, affrancandosi dalla responsabilità testimoniale o dal compimento di attività collaborative con la giustizia.

La questione di compatibilità con i diritti costituzionalmente tutelati, cioè il contraddittorio e la tutela dei diritti difensivi, sorge spontanea. In tal senso la dottrina si è mostrata coesa nell’escludere la possibilità di equiparare la partecipazione a distanza di un testimone, così come dell’imputato, all’ipotesi in cui lo stesso renda la propria dichiarazione nel contesto spazio-temporale dell’udienza.

Per quanto, infatti, la partecipazione mediante collegamento audiovisivo consenta all’imputato, come al testimone, la partecipazione al dibattimento pur non essendo fisicamente presente in aula, essa rappresenta pur sempre un’anomalia, configurandosi comunque come una partecipazione mediata dall’utilizzo di strumenti tecnologici.

Posto che nel nostro ordinamento vige il principio del libero convincimento del giudice nella valutazione delle prove, è ragionevole presumere che assumeranno primaria importanza in tale valutazione tutta una serie di dettagli (quali, ad esempio, lo stato d’animo del dichiarante, le eventuali reazioni emotive dello stesso nel corso dell’esame) che tramite il collegamento audiovisivo risulteranno meno percepibili. Con riferimento poi all’esame dell’imputato e ad una sua possibile partecipazione virtuale all’udienza, inoltre, i dubbi si ampliano, coinvolgendo in maniera più pregnante il nucleo duro dei diritti di difesa che rischiano di essere irrimediabilmente compromessi.

Nell’iter legislativo che ha portato all’approvazione della disciplina, infatti, si è avuto modo di riflettere circa l’effettiva portata della deroga apportata ai principi del contraddittorio, si concluse con una disciplina che, pur sacrificando la fisica presenza dell’imputato in aula, fosse comunque idonea a garantire detto confronto.

La legittimità della disciplina è derivata dalla sussistenza di esigenze meritevoli di tutela, che giustificano una limitazione del diritto al contraddittorio. Tale principio, per quanto costituisca un canone fondamentale della giurisdizione penale non può ritenersi esonerato dall’attività di bilanciamento di interessi: il legislatore ha, infatti, bilanciato le esigenze proprie del diritto al contraddittorio con la necessità di tutelare la sicurezza dei dichiaranti e garantirne l’incolumità.

In particolare, i ricorrenti, per un verso, evidenziavano come la presenza dell’imputato al dibattimento mediante collegamento audiovisivo pregiudicava il concreto espletamento del rapporto imputato-difensore, non consentendogli di reagire con la dovuta prontezza, e ledendo, di conseguenza, i suoi diritti difensivi. Per altro verso si sosteneva che la limitazione del diritto di difesa, rivolto solamente ad alcune categorie di imputati, generasse un’ingiusta disparità nel trattamento che andava a ledere con quanto sancito dall’art. 3 Cost.

La Corte costituzionale ha affermato la non illegittimità costituzionale escludendo che la partecipazione tramite collegamento audiovisivo possa effettivamente condizionare la partecipazione al dibattimento. Secondo la Corte l’ammissibilità di una simile forma di partecipazione dipende esclusivamente dall’utilizzazione di strumenti tecnici idonei a garantire all’imputato una partecipazione piena ed effettiva al contraddittorio dibattimentale, unitamente alla predisposizione di tutte le precauzioni volte a garantire il rispetto del diritto di difesa. Di conseguenza, «nessun effetto distorsivo può prodursi per l’uso delle videoconferenze, dal momento che la normativa in esame individua un esauriente sistema di risultati che il procedimento a distanza deve sempre e comunque garantire».

Anche l’impatto della disciplina sui principi di oralità e immediatezza è stato sottoposto all’attenzione della Corte costituzionale, la quale ha negato l’esistenza di un contrasto con tali principi. La scelta della Corte di escludere qualsiasi compressione dei diritti di oralità e immediatezza risulta strana, infatti risulta evidente come la partecipazione a distanza sia idonea a sacrificare i principi in questione. La presenza in aula, infatti, garantisce una prontezza ed una rapidità nell’assunzione delle scelte e nelle modalità di svolgimento degli esami, che non può essere garantita dalla presenza solo virtuale dell’imputato. In altri termini, se è vero, come affermato in dottrina, che la partecipazione virtuale non può essere equiparata alla presenza reale in aula sotto il profilo dell’esercizio tempestivo dei diritti di autodifesa, ne deriva che i canoni di oralità e immediatezza ne usciranno sacrificati.

Tuttavia, non significa necessariamente affermare una sua radicale incompatibilità con il dettato costituzionale, bisogna verificare fino a che punto i canoni del giusto processo possano subire limitazioni determinate dalla necessità di tutelare interessi come l’incolumità dei dichiaranti e la sicurezza pubblica.

Il primo dei due presupposti limita l’operatività dell’istituto all’ipotesi in cui si proceda per uno dei delitti di cui agli artt. 51 comma 3 bis e 407, comma 2 lett. a) n. 4 c.p.p.: il ricorso al collegamento audiovisivo è dunque circoscritto ai soli procedimenti relativi a fenomeni delittuosi di particolare intensità o allarme sociale, quali i reati di stampo mafioso, l’eversione costituzionale ed il terrorismo. L’altro presupposto volto a circoscrivere la portata della disciplina concerne lo stato di detenzione cui deve trovarsi l’imputato: come espressamente precisato dalla norma lo stato di detenzione può essere dovuto ‘a qualsiasi titolo. Tale locuzione assume una valenza “oggettiva”, sia nel senso che la detenzione può anche essere riconnessa a delitti diversi da quelli menzionati dall’art. 51, comma 3 bis, sia nel senso che essa possa dipendere dall’espiazione della pena, così come dall’applicazione della custodia carceraria.

La presenza di detti presupposti, per quanto indefettibile, non è comunque sufficiente: è necessario, infatti, che sussistano anche le condizioni sancite alle lett. A e B del comma 1 della norma in commento. A tal proposito è opportuno precisare come dette condizioni siano dotate di autonoma valenza, nel senso che ai fini dell’applicabilità del diverso regime partecipativo, sarà sufficiente il riscontro di una sola di esse.

La prima delle due condizioni richiede la sussistenza di ‘gravi ragioni di sicurezza ed ordine pubblico, ipotesi derivante principalmente dall’alto tasso di pericolosità ed allarme sociale che generano tali fattispecie delittuose. In dottrina c’è chi ha ritenuto tale formulazione eccessivamente generica, ed inidonea a fungere da filtro tra le diverse situazioni di pericolo per l’incolumità pubblica ed individuale che in astratto sono prospettabili; e che possa finire nell’ammettere il ricorso a tale istituto ogniqualvolta si presentino disagi o difficoltà nella traduzione dei detenuti in udienza.

Se la locuzione sia realmente in grado di ricomprendere un eccessivamente ampio ventaglio di ipotesi, così da perdere la propria finalità selettiva, si finirebbe per attribuire al giudice un ruolo determinante, un’ampia discrezionalità circa l’applicabilità o meno dell’istituto, permettendogli in tal modo di assumere scelte fortemente incidenti sui diritti difensivi delle parti.

In realtà, il riferimento normativo alla particolare complessità del dibattimento quale condizione per il ricorso alla partecipazione a distanza, rischia di vanificare le finalità selettive che la condizione stessa dovrebbe soddisfare. Il rischio è che si venga ad instaurare una sorta di automatico ricorso alla videoconferenza ogni volta che il procedimento riguardi i reati di cui all’art. 51, comma 3 bis c.p.p., data la complessità quasi sempre riscontrabile in tali processi. La stessa formulazione della fattispecie incriminatrice dell’art. 416 bis c.p.p. è costruita in maniera tale da postulare la presenza di più imputati: in tal modo si rischierebbe di trasformare l’istituto della partecipazione a distanza come il normale metodo di accertamento dei delitti di mafia, vanificando gli sforzi ‘contenitivi’ del legislatore, e rischiando di compromettere la compatibilità costituzionale della norma.

L’analisi della disciplina contenuta all’interno degli artt. 146 bis e 147 bis disp. att. c.p.p. evidenzia come la normativa predisposta dal legislatore abbia raggiunto un ragionevole equilibrio, creando una disciplina che consente di tutelare esigenze di sicurezza collettiva, incolumità e celerità processuale senza tuttavia frustrare i diritti difensivi delle parti. Mediante tale intervento normativo il legislatore sembra essere riuscito nell’intento di creare un doppio binario normativo apportando minime lesioni ai diritti degli imputati.

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