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Il protezionismo fa male (anche) all’ambiente

Uno spettro si aggira per il mondo: lo spettro del protezionismo. La chiusura delle frontiere alle merci ed ai capitali è stata una tendenza apparentemente finita dopo la Seconda Guerra Mondiale; ma da qualche anno a questa parte (specie dopo l’ascesa dei populismi di varia natura) sembra avere nuovo rigore.

Tonnellate di carta e fiumi d’inchiostro sono stati spesi in favore del commercio internazionale (non ultimo il libro di Stagnaro e Saravalle); ma con l’articolo di oggi tenteremo di spiegare perché, oltre all’economia, la chiusura al commercio estero fa male anche all’ambiente. Cominciamo.

Protezionismo: quali sono i danni all’ambiente?

L’impatto più evidente delle politiche protezionistiche è quello economico. I dazi, introducendo delle distorsioni nel mercato, provocano una perdita di efficienza delle imprese nazionali, aumentano i prezzi per il consumatore e diminuiscono il tenore di vita generale.

Meno noti sono i danni che la chiusura delle frontiere a merci, persone e capitali provoca all’ambiente; un tema, questo, di cui si è occupato il Center for European Policy Research (CEPR) in un articolo del 24 dicembre 2021.

L’assunto, dimostrato dalla letteratura scientifica, è che il cambiamento climatico avrà degli effetti importanti sulla produttività del settore agricolo di molti Paesi. Ad esempio, questa ricerca dimostra che ogni grado di esposizione giornaliera alla temperatura superiore a 30 ° C riduce drasticamente la resa di colture come mais, soia e grano.

Le soluzioni a ciò sono molteplici; tra queste, c’è quella che consiste nel consentire agli agricoltori di adattare le loro decisioni di produzione in risposta ai mutamenti climatici. Una ricerca in materia, condotta da Costinot ed altri nel 2016, ad esempio, utilizza le proiezioni globali della FAO relative alle rese potenziali delle diverse colture con e senza il cambiamento climatico per stimare in che modo gli agricoltori possono riallocare le produzioni in base al cambiamento della temperatura e delle precipitazioni.

Lo studio scopre non solo che maggiore è la capacità di adattamento degli agricoltori e maggiore è la resa delle diverse colture; ma anche che avere un mix produttivo pensato per fronteggiare il cambiamento climatico sarà insufficiente. Per esempio, si stima che se le emissioni dovessero aumentare, il Malawi perderà circa il 50% della sua produttività agricola anche se gli agricoltura della regione venisse efficientata secondo i criteri proposti.

Queste stime sono confermate anche da altri studi, in cui si conclude che la crescita della temperatura è negativamente correlata con la produttività agricola.

Il ruolo del libero scambio…

Se quanto detto è vero, ciò implica anche che l’agricoltura nelle regioni più temperate, come il Canada o la Russia, potrebbe trarne un certo beneficio. In questo senso, Paesi dal clima più caldo possono contrastare gli effetti negativi del cambiamento climatico spostando la manodopera in settori non agricoli e aumentare le importazioni di cibo; allontanando – quindi – la produzione agricola dall’equatore.

Una condizione importante perché ciò accada è, ovviamente, le persone, le merci e i capitali siano liberi di spostarsi tra i diversi paesi: maggiore è l’integrazione economica ed il livello di scambio tra Paesi, maggiore è l’apertura di un’economia, migliore è la capacità di adattamento dei sistemi produttivi nei paesi maggiormente colpiti dal cambiamento climatico.

I dati, in questo senso, parlano chiaro. L’autore dello studio citato si domanda perché, nonostante la scarsa produttività del settore, i paesi a reddito più basso e a temperature più alte siano quelle più specializzate nel settore agricolo. Non è, dopotutto, contrario alla famosa teoria dei vantaggi comparati enunciata da Ricardo?

Le possibili risposte a ciò sono diverse. L’autore ne propone due: la prima è relativa a quello che potremo chiamare il “problema del cibo”. Dal momento che il cibo è un genere di prima necessità, le persone a basso reddito nei paesi poveri con prezzi alimentari relativamente alti devono spendere una quota maggiore del loro reddito per mangiare cibo a sufficienza per sopravvivere.

Affinché l’offerta soddisfi la domanda in tali luoghi, queste quote elevate di spesa per il cibo richiedono necessariamente quote di produzione elevate in agricoltura, almeno in assenza di commercio.

…e i danni del protezionismo

Da questo fatto, e dalla necessità di riallocare la forza lavoro, capiamo i benefici del commercio internazionale (e i danni del protezionismo) riguardo l’ambiente.

La mancanza di scambi commerciali, coniugata al cambiamento climatico, rende il cibo per i paesi più poveri più costoso; fatto, questo, che impoverisce ancora di più le persone e – di conseguenza – le fa rimanere “intrappolate” nelle produzioni agricole nonostante la scarsa produttività delle stesse.

I dati sembrano, in questo senso, dare un riscontro empirico a questa teoria. Nelle seguenti due figure, infatti, vediamo come da un lato i danni climatici previsti in molti paesi poveri si avvicinano o superano il 10% del reddito solo per gli effetti dell’aumento delle temperature sulla produttività (esclusi altri danni climatici, come gli effetti sulla salute o i danni degli uragani); dall’altro gli impatti sul livello dei prezzi dei prodotti agricoli

Figura 1: Disponibilità a pagare per evitare gli effetti sulla produttività del cambiamento climatico
Figura 2: Impatto stimato del cambiamento climatico sul tasso di variazione del livello dei prezzi

Insomma, al contrario di molte opinioni più o meno diffuse, il protezionismo danneggia l’ambiente (oltre che l’economia). E il giorno in cui lo capiremo, forse, sarà troppo tardi.

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