Europa

La Corte costituzionale polacca ed il primato del diritto comunitario

Il contesto della sentenza

Il principio della prevalenza del diritto europeo sulle normative nazionali degli Stati membri rappresenta uno dei pilastri fondamentali sia dell’ordinamento giuridico comunitario che dei singoli ordinamenti nazionali dei suoi Stati membri.

Un principio che si potrebbe definire “monolitico” all’interno della dottrina e della giurisprudenza continentale, che hanno contribuito in modo diretto alla sua evoluzione storica, al suo rafforzamento ed allo sviluppo delle sue implicazioni sul piano pratico. Neanche gli intransigenti giudici federali della Corte federale tedesca, noti per le loro critiche rispetto all’interpretazione cosiddetta flessibile dei trattati comunitari, sono mai arrivati a lambire con le loro sentenze la fonte stessa dell’autorità della normativa comunitaria. A conferma del carattere consolidato di tale principio vi è lo scalpore, sia del mondo mediatico che del mondo accademico continentale, provocato dalla sentenza K 3/21 del Tribunale Costituzionale polacco, che, attraverso questa recente sentenza, decide di mettere in discussione per la prima volta il suddetto principio. Il 7 ottobre 2021, a seguito di ben quattro rinvii, la Corte polacca si esprime sui quesiti di costituzionalità posti dal governo polacco su tre serie di articoli del Trattato sull’Unione Europea (TUE). Quella che segue è un’analisi sintetica ma completa del testo della sentenza nella sua versione ufficiale tradotta in lingua inglese.

Cosa dice il TUE?

Il primo punto da affrontare riguarda l’articolo 1, primo e secondo comma TUE letto assieme all’articolo 4 paragrafo 3 TUE, il quale, in breve, impone alle autorità che applicano la legge a non applicare la normativa costituzionale polacca, oppure in alternativa di applicare delle disposizioni che non sono conformi alla costituzione (in questo caso quella polacca), al fine di garantire l’applicazione delle norme comunitarie. Poi bisogna guardare l’art. 19, paragrafo 1, secondo comma TUE, tenendo sempre accanto l’articolo 4, paragrafo 3 TUE; quest’articolo ci dice che l’autorità che applica la legge è competente o obbligata ad applicare le disposizioni comunitarie in modo non conforme alla Costituzione, anche se dichiarate incompatibili da una sentenza della corte costituzionale del paese stesso.

Infine, il governo polacco interroga la Corte polacca sulla compatibilità dell’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma TUE, questa volta c’è da tenere presente l’articolo 2 TUE, quest’articolo autorizza un tribunale polacco a controllare l’indipendenza dei giudici stessi.

La sentenza: quali rapporti con il diritto comunitario?

Riguardo al primo punto, la sentenza della corte nega l’interpretazione che di norma viene data dell’articolo 1. La Corte polacca, infatti afferma che se

“l’Unione europea, costituita da Stati uguali e sovrani, crea un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa, la cui integrazione, che avviene sulla base del diritto dell’UE e attraverso l’interpretazione del diritto dell’UE da parte della Corte di giustizia dell’Unione europea

, come risultante dall’interpretazione oggetto di analisi nel primo quesito, questo implicherebbe una serie di conseguenze sul piano giuridico considerate totalmente incompatibili con la Costituzione polacca. Di seguito la Corte polacca esplicita quelle che secondo il collegio di giudici sarebbero le dirette conseguenze incompatibili con la normativa costituzionale, ovvero: l’attribuzione implicita all’Unione europea di competenze non previste dalle norme pattizie, la negazione del carattere primario e vincolante della Costituzione polacca come legge suprema dello Stato, ed infine la negazione del possesso di sovranità da parte dello Stato e la cessazione delle garanzie costituzionali inerenti al rispetto dello stato di diritto.

Per quanto concerne il secondo quesito, la Corte dichiara incostituzionale anche il paragrafo 1, comma secondo, dell’articolo 19 TUE, inerente ai rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione. Secondo la Corte, tale articolo risulterebbe incostituzionale se interpretato come capace di attribuire ai tribunali nazionali la competenza ad “aggirare le disposizioni della Costituzione in sede di giudizio” o giudicare sulla base di disposizioni non più vincolanti poiché dichiarate incostituzionali dalla corte stessa.

Infine, per quanto riguarda l’articolo 19, paragrafo 1 TUE,  questa volta in combinato disposto con l’articolo 2 TUE, dedicato ai valori democratici sui cui si fonda l’ordinamento comunitario, incluso il principio di indipendenza e terzietà del giudice, anch’esso viene dichiarato incostituzionale nella misura in cui, ai fini di garantire una tutela effettiva dei cittadini e assicurare l’indipendenza dei giudici, i tribunali nazionali sono autorizzati a: “controllare la legalità della procedura di nomina di un giudice, compreso il controllo della legalità dell’atto con cui il Presidente della Repubblica”, “controllare la legittimità della risoluzione del Consiglio Nazionale della Magistratura di rinviare al Presidente della Repubblica la richiesta di nomina di un giudice oppure “determinare la difettosità del processo di nomina di un giudice e, di conseguenza, rifiutare di considerare come giudice una persona nominata ad un ufficio giudiziario”.

In questa sentenza sono evidenti alcune evidenti forzature figlie di valutazioni di carattere politico, più che giuridico. Infatti la statuizione dei giudici di Varsavia mette in dubbio due principi fondamentali dell’ordinamento comunitario: il principio del primato del diritto comunitario ed il principio dell’applicabilità diretta delle norme comunitarie, da esso derivante.

Il principio del primato del diritto comunitario ha radici profonde nella storia giuridica dell’organizzazione internazionale dell’Unione europea. Nel 1963 nella sentenza Van Gend en Loos, la Corte di Giustizia di Lussemburgo afferma il carattere sui generis dell’ordinamento comunitario, in quanto esso crea un ordinamento proprio che attribuisce diritti agli individui in modo diretto, erodendo la sovranità statale negli ambiti di competenza dell’allora comunità europea. L’anno seguente, nel 1964, la stessa Corte emette la sentenza considerata da molti come momento di consolidamento definitivo del principio in oggetto, la sentenza Costa contro Enel, causa numero 6/64. In tale sentenza la Corte di Giustizia europea, ribadendo il carattere sui generis del trattato C.E.E afferma che “Il trasferimento, effettuato dagli Stati a favore dell’ordinamento giuridico comunitario, dei diritti e degli obblighi corrispondenti alle disposizioni del Trattato implica quindi una limitazione definitiva dei loro diritti sovrani, di fronte alla quale un atto unilaterale ulteriore, incompatibile col sistema della Comunità, sarebbe del tutto privo di efficacia. […]”. Una cessione di sovranità che dunque risiede nella natura stessa dei trattati comunitari, limitata alle competenze attribuite all’organizzazione internazionale ed accettata dagli Stati membri tramite la loro adesione ai trattati stessi.  

Dal principio del primato del diritto comunitario deriva in modo diretto il principio di applicabilità diretta della normativa comunitaria, stabilito nella causa Simmenthal numero 106 del 1977, dalla sentenza della Corte di Giustizia: viene stabilito che il diritto comunitario debba esplicare pienamente i propri effetti, in maniera uniforme in tutti gli Stati membri, a partire dalla loro entrata in vigore e per tutta la durata della loro validità. Le disposizioni direttamente applicabili sono una fonte immediata di diritti e di obblighi per tutti coloro a cui tali norme si riferiscono, siano questi gli Stati membri o singole persone fisiche o giuridiche. Questo effetto riguarda anche tutti i giudici che, aditi nell’ambito della loro competenza, hanno il compito, in quanto organi di uno Stato membro, di tutelare i diritti attribuiti ai singoli dal diritto comunitario.

Tali principi risultano ormai consolidati nell’attuale prassi normativa degli Stati membri e nei trattati comunitari stessi. Gli articoli 4, paragrafo 3 TUE e 19, paragrafo 1 TUE, rispettivamente oggetto nella dichiarazione di incostituzionalità del Tribunale Costituzionale polacco, costituiscono un’evidente espressione di tali principi.  In primo luogo, non è chiaro a quali ulteriori competenze il Tribunale Costituzionale polacco si riferisca, quando dichiara incostituzionale l’interpretazione dell’articolo 1 TUE in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 3 TUE, negando la possibilità che il secolare processo di integrazione comunitario possa essere conforme alla carta costituzionale polacca. La cessione di sovranità denunciata dalla corte, come detto in precedenza, è sempre stata implicita nell’adesione ai trattati comunitari stessi, tuttavia, non ha mai riguardato competenze ulteriori rispetto a quelle previste dai trattati stessi. Negando tale processo integrativo ed uniformante svolto dal diritto comunitario nei campi di azione dell’Unione, assodato dalla suddetta giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e considerato implicito nell’adesione stessa all’organizzazione, viene di fatto negato il principio fondante che lega lo Stato membro in oggetto, la Polonia, all’Unione europea stessa. Alla luce di ciò, si rileva come la statuizione del Tribunale Costituzionale di Varsavia in merito a tale incompatibilità fra il testo costituzionale e l’interpretazione maggioritaria del TUE, appaia pretestuosa, forzata ed antistorica.

Attraverso la dichiarazione di incostituzionalità dell’articolo 19, paragrafo 1 TUE ad apparire minacciato risulta essere anche il principio di applicabilità diretta del diritto comunitario nell’ordinamento polacco. In questo caso viene attuata quella che sembra essere una forzosa applicazione per extrema ratio di tale principio al contesto nazionale dello stato membro in questione. Presupponendo, infatti, che al giudice nazionale venga richiesto di applicare una norma comunitaria dichiarata incostituzionale, o che “aggiri” la costituzione stessa, si tenta di negare in via generale e implicita la possibilità per il giudice di applicare il diritto comunitario in modo diretto e privo di controlli preventivi, come invece viene previsto dai trattati e dalla giurisprudenza comunitaria. Viene dichiarato incostituzionale l’articolo che garantisce ai beneficiari diretti del diritto comunitario, i cittadini,  una tutela effettiva sul proprio territorio nazionale e sul territorio di tutti gli Stati membri dell’Unione, nonché la norma che stabilisce il ruolo primario della Corte di giustizia dell’Unione come organo garante del rispetto del diritto comunitario. Di fatto la sentenza in oggetto rappresenta una concreta, seppur potenziale, minaccia alle garanzie giuridiche di cui godono i cittadini polacchi in forza della normativa comunitaria. La gravità di tale statuizione, viene confermata dall’annuncio dell’imminente apertura, da parte della Commissione europea, di una procedura di infrazione nei confronti della Polonia per la violazione dell’articolo 19, paragrafo 1 del TUE nelle sue sentenze del 14 luglio 2021, e ovviamente, 7 ottobre 2021.

La sentenza K 3/21 del 7 ottobre 2021 risulta dunque essere più figlia di una sfida di carattere politico all’Unione, piuttosto che una volontà di aprire un dibattito giuridico sul tema. Tale volontà è probabilmente figlia delle recenti riforme costituzionali, in chiave conservatrice, fortemente volute dal governo di Varsavia negli ultimi mesi e costante oggetto di critiche da parte dell’opinione pubblica continentale e delle istituzioni comunitarie. Non è un caso infatti se la sentenza in oggetto affermi, infine, la negazione della possibilità per i giudici nazionali di sindacare le decisioni della Presidenza della Repubblica e dell’organo che governa la magistratura polacca in merito alla nomina dei giudici. Fra gli aspetti più criticati della riforma, vi è infatti il progressivo accrescimento dei poteri giudiziari in capo all’esecutivo di Varsavia, considerato una minaccia al principio di imparzialità e terzietà dei giudici tutelato sia dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sia dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Riforma di cui è stato oggetto lo stesso Tribunale Costituzionale, autore della sentenza. In ogni caso, la volontà destabilizzante. implicita nella portata continentale della sentenza, porterà inevitabilmente all’apertura di un dibattito anche sul piano giuridico. La sua evoluzione sul piano giuridico rappresenterà un banco di prova per la tenuta dell’ordinamento comunitario, in grado di mettere in evidenza le differenti visioni che dividono le dottrine dei Paesi membri occidentali, da quelle degli Stati di recente ingresso, i quali, in più occasioni, hanno già avuto modo di mostrare la loro ambigua visione delle modalità di appartenenza alla nostra Unione europea.


BIBLIOGRAFIA

Fonti Internazionali

Fonti Normative

Fonti Pattizie

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Organismi Unione Europea

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Giurisprudenza Internazionale

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Corte Europea di Giustizia, Sentenza del 15 luglio 1964, Causa 6-64, Flaminio Costa contro E.N.E.L. Domanda di pronuncia pregiudiziale: Giudice conciliatore di Milano – Italia, in Raccolta della Giurisprudenza 1964, pp. 1135-1152.

Corte Europea di Giustizia, Sentenza della Corte del 9 marzo 1978, Causa 106/77, Amministrazione delle finanze dello Stato contro S.p.A. Simmenthal. Domanda di pronuncia pregiudiziale: Pretura di Susa – Italia. Disapplicazione da parte del giudice nazionale di una legge in contrasto col diritto comunitario, in Raccolta della Giurisprudenza 1978, pp. 629-647.

Altre Fonti

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Sitografia

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Consiglio d’Europa – URL: <https://www.coe.int/it/>

EUR-lex. Banca Dati giuridica dell’Unione Europea – URL: <https://eur-lex.europa.eu/>

Parlamento Europeo – URL:  <https://www.europarl.europa.eu/portal/it>

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