Economia, Scienze economiche

La FED e la crisi del ’29: quale nesso?

Ci sono degli argomenti che, in economia, non perdono mai interesse agli occhi degli studiosi; la crisi del ’29 è tra questi. Studiata da economisti di diversa estrazione (basti pensare a Keynes ed alla sua “Teoria Generale”, o a Friedman e ad al suo “A monetary history of the United States”), ancora oggi questo argomento rimane oggetto di dibattito tra gli economisti.

Con l’articolo di oggi, cercheremo di dare un’interpretazione alternativa (supportata da dati ufficiali) di questo evento (di cui abbiamo parlato anche in un nostro video). La nostra tesi è che sia i fattori monetari sia quelli reali hanno concorso a determinare la dinamica espansionistica prima e recessiva poi.

Moneta e Prezzi: un’analisi

Se c’è una cosa su cui molte delle teorie (almeno la keynesiana e la monetarista) sono d’accordo in merito alla crisi del ’29 è che essa ha visto come protagonista la politica monetaria. Diamo un’occhiata, quindi, alle dinamiche della moneta e dei prezzi negli anni Venti.

I prezzi

Contrariamente a quanto si pensa, gli anni Venti non furono un periodo inflazionistico. Come vediamo dal grafico seguente, infatti, i prezzi all’ingrosso non hanno subito delle variazioni importanti (al rialzo come al ribasso), se non nel 1920 (anno caratterizzato da una breve recessione post-bellica):

Figura 1: Indice dei prezzi all’ingrosso e tasso di variazione dell’indice dei prezzi all’ingrosso (fonte, National Bureau of Economic Research, IV, “Prices”)

L’indice generale dei prezzi (figura 2) presenta un comportamento diverso.

Grafico 2: Indice generale dei prezzi (scala di destra) e tasso di variazione (scala di sinistra).

Fatto 100 il valore del gennaio 1913, infatti, osserviamo un aumento del 6,4% tra il 1922 e il 1923, tra la seconda metà del 1924 e il 1925 l’indice generale dei prezzi aumenta del 4,8% e infine nel periodo tra il 1927 e il 1929 l’aumento è del 8,2%.

Un’operazione interessante che ci consentono di fare i dati del NBER è scomporre l’indice dei prezzi nelle sue diverse componenti; cosa – questa – che ci mostra come a questi aumenti hanno contribuito in larga parte gli aumenti dei titoli industriali:

Figura 3: Dow Jones industrial average. Fonte: NBER, XI: Securities Markets

Osserviamo come nel periodo tra il 1927 e il 1929 i titoli industriali passano da poco più di 150 dollari per azione nel 1927 a più di 350 dollari nel 1929. Come mai questo incremento importante? Vediamo cosa è successo alla moneta.

La moneta

Sappiamo, dall’equazione degli scambi, che

MV = PY

, da cui ricaviamo che il livello generale dei prezzi è dato da:

Da cui ricaviamo che se i prezzi aumentano (supponendo una velocità di circolazione e un prodotto reale costante) la causa deve essere un aumento nella quantità di moneta. Osserviamo cosa accadde, innanzitutto, alla velocità di circolazione (espressa come rapporto):

Figura 4: Velocità di circolazione della moneta

Vediamo che la velocità di circolazione è rimasta abbastanza stabile. Ma cosa dire della produzione? Il grafico seguente ci mostra l’andamento della produzione manifatturiera:

Figura 5: indice della produzione manifatturiera, fonte NBER

Vediamo che gli anni Venti sono stati, dal punto di vista della produttività, un ottimo periodo. Pensiamo all’automobile, all’uso dell’elettricità nei processi produttivi o il ritorno di molta forza lavoro dal fronte: dei fattori, questi, che hanno aumentato la produzione manifatturiera (e non).

A fronte di un aumento della produttività, a parità di altre condizioni ci saremmo dovuti aspettare un calo del livello dei prezzi; cosa che non abbiamo visto.

Per capire come mai, occorre vedere cosa sia successo all’offerta di moneta (e in particolare a M1 ed M2), che vediamo nella figura 6:

Figura 6: componenti di M1 ed M2 più totale dei depositi. Fonte: NBER
Figura 7: M0 ed M2

In particolare, osserviamo come nei periodi precedenti la crisi del ’29 la politica monetaria è stata molto espansiva; fatto – questo – confermato da un lato dalle variazioni al ribasso dei coefficienti di riserva obbligatoria e dall’altro dall’elevato valore del moltiplicatore monetario di quegli anni.

Inoltre, un ulteriore indicatore dell’orientamento espansivo della politica monetaria di quegli anni è il risconto degli “effetti reali” operato dalla FED. Questo criterio (citato anche da Friedman nel suo “A monetary history of the United States”) consisteva nel far emettere alla FED una quantità di base monetaria collegata a “biglietti, tratte, e cambiali provenienti da reali transazioni commerciali” ad un certo tasso, la cui evoluzione vediamo nel grafico qui sotto:

Figura 8: Tasso di sconto vs titoli riscontati. Fonte: NBER

Questo, come vediamo, portò alla creazione di nuove riserve presso la FED stessa:

Figura 9: Variazione degli effetti riscontati

Possiamo concludere, quindi, che nei periodi precedenti al 1929, vi erano due forze in atto: da un lato l’aumento della produttività (che teneva bassi i prezzi al consumo) e dall’altro le politiche espansive della Federal Reserve, che concentravano i loro effetti nel settore finanziario e alzavano i prezzi degli asset.

Dall’espansione alla recessione

Questo processo, sostenuto per diversi anni, ad un certo punto non è più sostenibile, e culmina con la crisi del ’29.

Questo fatto possiamo vederlo con due grafici, il primo che confronta i tassi di rendimento e i tassi di sconto della FED ed il secondo che confronta il tasso reale con i rendimenti di azioni e obbligazioni:

Figura 10: Tasso di sconto vs tasso di interesse reale. Fonte: NBER
Figura 11: Rendimenti azionari e obbligazionari vs tasso d’interesse reale. Fonte NBER

Vediamo che i tassi di rendimento erano decisamente più alti dei tassi d’interesse reali; ciò significa che era estremamente conveniente prendere a prestito denaro e comprare azioni. La FED, insomma, avrebbe alimentato, via aumento dei prezzi degli asset ottenuto con delle politiche espansive, un boom nei mercati finanziari.

A questo punto è interessante vedere cosa accade quanto il tasso d’interesse reale sale (come effetto di una politica restrittiva repentina) e si riavvicina ai tassi di rendimento. Gli operatori non trovando più conveniente possedere le azioni decidono di vendere e questo, unito al fatto che non è più conveniente acquistare, determina il crollo di Wall Street.

Crisi del ’29: quando la FED fa troppo?

Dalla precedente analisi sono innumerevoli le conclusioni che possiamo trarre.

In primo luogo che le variabili reali e quelle monetarie (come il buon Wicksell insegna) interagiscono molto di più di quanto pensiamo.

In secondo luogo, che aveva ben ragione Friedman a ritenere che la crisi del ’29 una conseguenza di una politica restrittiva della FED. Tuttavia, una tale politica non sarebbe stata necessaria se precedentemente non si fosse avviata una politica espansiva. La FED, quindi, ha sbagliato prima in eccesso e poi in difetto.

Da ultimo, il fatto che non è compito delle autorità sostenere i prezzi degli asset; mentre è loro principale preoccupazione assicurare la stabilità finanziaria e il corretto funzionamento dei mercati.

Chissà se da questi episodi riusciremo a trarre, dopo quasi un secolo di distanza, delle lezioni utili per la conduzione prudente delle politiche monetarie? Ai posteri l’ardua sentenza.

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