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L’economia del green pass: vaccini ed esternalità

La questione dominante di questi giorni, a livello politico quanto economico ma anche sociale e sanitario, è l’estensione dell’uso del Green Pass per contenere l’espansione dei contagi derivanti da COVID-19. Nei mesi, nelle settimane e nei giorni precedenti la sola ipotesi del provvedimento in oggetto sono state sollevate molte questioni legate alla legittimità e all’efficienza di questa tipologia di misura. Una delle più grandi obiezioni a tale provvedimento, nella fattispecie, è che esso limiterebbe inutilmente la libertà individuale senza portare ad un reale beneficio in termini di prevenzione dei contagi. Sarà così? Lo scopo di questo articolo sarà quello di vedere in che modo la disciplina economica può aiutarci a rispondere al problema.

Il punto centrale da cui partire è categorizzare dal punto di vista economico le conseguenze di una mancata vaccinazione e – quindi – del contagio da COVID-19. In questo senso, tale fenomeno può essere categorizzato come una esternalità negativa, ossia come uno di quegli

“effetti (detti anche effetti esterni o economia esterna) che l’attività di un’unità economica (individuo, impresa ecc.) esercita, al di fuori delle transazioni di mercato, sulla produzione o sul benessere di altre unità. Quando l’azione dell’agente economico determina dei benefici per altri, senza che il primo ne riceva un compenso, si parla di economie esterne per questi altri soggetti o per l’economia nel suo complesso; quando invece l’azione intrapresa dall’agente economico provoca dei costi per altri, costi che esso non sostiene, si parla di diseconomie esterne”.

Questo perché il contagio comporta non solo dei costi per il contagiato ma, come se non bastasse, anche dei costi per tutti coloro che debbono subire i danni derivanti dalle chiusure che, necessariamente, si dovranno sostenere per consentire al virus di non circolare e di tenere sotto controllo il tasso di contagi e di ospedalizzazioni. La questione, dunque, diventa come internalizzare un costo esterno quale – appunto – il contagio da COVID; un’operazione che finora è stata affrontata (o che si è proposto di affrontare) in due soli modi: in primo luogo con un lockdown duro e puro (soluzione ceconomicamente impraticabile e socialmente dannosa, oltre che onerosa come anzidetto). Si è poi discusso, più o meno sommessamente, di obbligo vaccinale (che non sarebbe nulla di che, essendo che l’istituto giuridico esiste già per altri vaccini).  Alla fine, il Governo ha deciso di optare per il green pass: un metodo che lascia la libertà di scelta al soggetto di vaccinarsi o meno, e che allo stesso tempo tutela chi è un soggetto a rischio nei confronti di un possibile vettore del contagio.

Discutere sull’aspetto valoriale (comunque inevitabile da trattare quando si parla di questi argomenti) non è compito né pretesa di questo articolo, come detto all’inizio. Quello che è in potere di chi scrive, però, è di riportare alcune nozioni della teoria economica per valutare l’efficienza e quindi il potenziale impatto (positivo o negativo) che una misura di questo tipo e per farlo servendoci della teoria del Nudge, dal momento che possiamo ragionevolmente dire che – per la finalità per cui è stato pensato – il Green Pass sia uno strumento di incentivazione (oltreché di protezione) e quindi ascrivibile alla categoria dei “nudge”. Possiamo definire “nudge” come

“[…] ogni aspetto nell’architettura delle scelte che altera il comportamento delle persone in modo prevedibile senza proibire la scelta di altre opzioni e senza cambiare in maniera significativa i loro incentivi economici. Per contare come un mero pungolo, l’intervento dovrebbe essere facile e poco costoso da evitare. I pungoli non sono ordini. Mettere frutta al livello degli occhi conta come un nudge. Proibire il cibo spazzatura no.”

Si capisce molto bene, quindi, in cosa consiste il “nudge”: non privazione paternalistica della scelte, ma diversa presentazione delle scelte, in modo tale che gli individui – sebbene lasciati liberi di esperire in ogni caso le azioni nel modo che desiderano – possano essere “spinti” a fare azioni che conducono ad esiti che potremmo definire asintotiche (ossia tendenti a, per i non addetti ai lavori) a degli “ottimi paretiani”, ossia situazioni per cui nessuno ha incentivo a cambiare dal momento che un simile mutamento comporterebbe il peggioramento della condizione di un altro internalizzando, in questo modo, l’esternalità.

E ciò dimostra la sua efficacia proprio in relazione alla vaccinazione: come evidenziato in un articolo della prestigiosa rivista “Nature”, si mostra come proprio settando delle opzioni di default si possa influenzare (e non coartare) gli individui verso delle scelte che producono delle esternalità positive, per dare un’idea della quale basti pensare che , l’economista Corey White ha stimato che due vaccini antinfluenzali possono prevenire la malattia di almeno altre due persone, mentre  4000 dosi di un vaccino antinfluenzale possono salvare una vita. Il problema è che sebbene i benefici sociali che derivano dal compiere questo atto siano molto alti, gli individui spesso non ritengono che questi benefici sociali siano anche buoni per quanto riguarda i loro interessi ed è per questo che, spesso, ci occupiamo di questo fenomeno di “sottoincentivazione” in diversi modi (spesso, obbligando i vaccini per legge o, appunto, il green pass).

Blue Pill, Red Pill e – stavolta – anche “green pill”. Come sempre, la scelta deve essere assolutamente libera e personale; con una sola avvertenza: che la libertà sia sempre corrisposta da una inevitabile responsabilità. Il contrario, per utilizzare termini economici, vorrebbe dire trasformare la società in un gioco non cooperativo, dove il free-riding diverrebbe la strategia dominante e dove (tra utopico rigorismo dei chiusuristi e sciocco ottimismo dei no-vax e negazionisti vari) la via per la ripresa di una vita sociale ed economica paragonabile (se non, auspicabilmente superiore) a quella di prima potrebbe essere tutt’altro che corta e facile da percorrere.

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