Economia, Scienze economiche

Più debito, meno preoccupazioni. Ma fino a quando?

2.651 miliardi di euro. Questa l’attuale dimensione del debito pubblico italiano, il cui livello, secondo i dati aggiornati di Banca d’Italia, ha toccato un nuovo record nel mese di marzo, segnando un aumento di 6,9 miliardi in più rispetto al mese precedente. E si tratta comunque di un aumento inferiore a quello avvenuto tra gennaio-febbraio, pari a 36,9 miliardi di euro. Di fronte a certe cifre verrebbe spontaneo chiedersi come mai i mercati finanziari, così come le banche centrali ed i governi sembrino – almeno per adesso – relativamente poco preoccupati per la situazione, mentre, quando il nostro debito pubblico era molto più basso tanto in termini assoluti che in percentuale sul Pil, di preoccupazione ce n’era eccome. Le ragioni di questa relativa calma sono diverse; certamente, la presenza di Mario Draghi al governo gioca un ruolo non irrilevante nel tranquillizzare i mercati, grazie alla forte credibilità legata alla sua figura. Ma, tema politico a parte, il punto è che attualmente viviamo in un uno scenario macroeconomico sicuramente diverso rispetto ai tempi in cui, nel bel mezzo della crisi dei debiti sovrani, lo spread tra BTp e Bund tedeschi stava sopra i 200-300 punti base. Come ha affermato il Presidente del Consiglio, “se la situazione del livello del rapporto debito/Pil fosse giudicata con gli occhi di ieri sarebbe molto preoccupante. Gli occhi di oggi sono completamente diversi”.

E allora, com’è che la crescente montagna del debito italiano non fa più paura?

Un fattore cruciale sarebbe relativo agli effetti delle scelte di politica monetaria adottate dalla Banca Centrale Europea, dato che il livello dei tassi determina i rendimenti dei titoli di Stato, e quindi anche lo spread rispetto ai Bund tedeschi. Com’è noto, negli ultimi anni i tassi Bce sono scesi a zero, e molti titoli di Stato europei hanno rendimenti addirittura negativi, il che si è riflesso in più bassi rendimenti per l’Italia e gli altri paesi europei e dunque uno spread più basso. Tuttavia, nelle ultime settimane il trend sembrerebbe essersi un po’ invertito, e il differenziale tra il decennale italiano e quello tedesco è risalito da circa 90 punti base nel mese di febbraio ai 120 attuali. I rendimenti sono saliti anche in altri paesi europei: lo spread Spagna-Germania è passato dai 58 di febbraio ai 71 attuali, Portogallo-Germania da 50 a 72. Il motivo sembrerebbe avere a che fare con il timore di un ritorno dell’inflazione, legato alle aspettative di ripresa mondiale per il 2021 e all’aumento dei prezzi del petrolio e delle materie prime, che sta facendo lievitare, seppur lievemente, i rendimenti dei titoli di Stato dei Paesi occidentali, che rimangono comunque a livelli molto più bassi che in passato.

I tassi Bce non sono però l’unico fattore a rasserenare i mercati. Molto probabilmente, un ruolo chiave è rivestito dai massicci programmi di acquisto di titoli di Stato da parte della BCE (QE e PEPP) sul secondario, che vanno avanti da ormai un decennio e che stanno avendo un fortissimo impatto nel garantire la sostenibilità del debito pubblico dei paesi europei più indebitati. Attualmente l’Italia ha sul mercato 2.284 miliardi di euro di titoli di Stato, di cui 581 miliardi tenuti in pancia alla Bce (157 miliardi acquistati nell’ambito del Pepp e 425 tramite Pspp). Si tratta di quasi 600 miliardi, circa un quarto del totale dei titoli di stato italiani, messi “al sicuro” nel bilancio di un compratore stabile per definizione. Secondo alcune stime, a fine 2021 circa il 27% del debito pubblico italiano sarà detenuto dalle istituzioni europee.

La crisi economica causata dalla pandemia ha, per certi versi, reso legittima la creazione di debito, informando la politica monetaria della Bce e allentando i vincoli di finanza pubblica a livello europeo. Questo stato d’eccezione, risultante dalla combinazione di Qe e sospensione del Patto di Stabilità e Crescita, ha permesso ai governi europei di indebitarsi a livelli prima difficilmente sostenibili, grazie al basso costo del debito. Per quanto riguarda l’Italia, secondo le ultime stime della Commissione europea il debito pubblico continuerà a salire nel 2021 fino a raggiungere il 159,8% del Pil, per poi scendere nel 2022 fino al 156,6% del Pil. Ma il bel paese, del resto, è in buona compagnia. In risposta alla crisi pandemica e alla necessità di fornire aiuti a cittadini e imprese, per i governi europei e non fare ricorso alla spesa pubblica finanziata in deficit è diventato la nuova normalità: la rapida crescita del debito pubblico nazionale è visto come il naturale prezzo da pagare per tentare di contrastare le conseguenze economiche della pandemia. Secondo i dati dell’ultimo World Economic outlook dell’Fmi, il debito pubblico mondiale è cresciuto in un anno di 10.000 miliardi di dollari, giungendo a sfiorare il 100% del Pil (nel 2019 83,4%). Tra i paesi avanzati, l’aumento del deficit sul Pil è stato particolarmente evidente nel Regno Unito (12,1 punti sul Pil) e negli USA (11,1), seguiti dall’Italia (9,3), Spagna (8,8), Francia (7,6) e Germania (6,6). Viene da pensare, tuttavia, che non tutti i debiti sono uguali: per un paese con un livello di debito iniziale già elevato, una crisi economica ha un impatto più grave sulla dinamica del debito. L’Italia registra un aumento del debito maggiore rispetto al Regno Unito di quasi 5 punti di Pil in più, anche avendo registrato un deficit più basso e una caduta del Pil inferiore, e quest’ultima causa una crescita del rapporto debito/Pil tanto maggiore quando maggiore è il debito iniziale.

 Sembrerebbe tutto troppo fin troppo perfetto; tuttavia – per guastare le feste –  è bene ricordarsi che prima o poi l’effetto Bce finirà. Già nelle ultime settimane si sta, seppure timidamente, iniziando a parlare di tapering (ossia una graduale riduzione degli acquisti di bond e della conseguente iniezione di liquidità sul mercato), in particolare a seguito della decisione della Bank of Canada di ridurre del 25% gli acquisti di titoli settimanali, e di un simile annuncio della Bank of England che ha rallentato gli acquisti mensili di bond. Se per adesso la BCE ha annunciato di voler mantenere una politica monetaria accomodante, di fronte ad una campagna vaccinale che procede a rilento e della non ancora ottimale situazione pandemica nei paesi europei, prima o poi anche da queste parti l’avvio verso una exit strategy appare inevitabile. E, se è vero che sembra ancora prematuro preoccuparsi per il ritorno dell’inflazione, è verosimile che la Bce non potrà evitare un aumento dei tassi di interesse e una revisione della propria politica di acquisti di titoli di stato qualora i segnali di una ripresa dell’inflazione fossero davvero evidenti. (https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-stampa-articolo-di-carlo-per-domani). In un mondo ultra-indebitato, abituato ad anni di politica monetaria accomodante e tassi a zero, la vera questione sarà come gestire il rientro dalle attuali politiche monetarie e fiscali espansive evitando che il castello di carte che è stato costruito ci cada prepotentemente addosso. Un irrigidimento della politica monetaria, oltre che il rialzo dei tassi, aumenterebbero il costo del debito reale: spendere in deficit senza pensieri non può pertanto diventare un modus vivendi. E per l’Italia – che prima della pandemia era l’unico paese europeo in cui la crescita del Pil nominale era inferiore al costo medio di finanziamento del debito pubblico – questo è ancora più vero. Per questo motivo lo stato dei conti pubblici e il peso del debito italiano è una questione di primaria importanza, ed occorre prepararsi a fare i conti con la realtà prima possibile: avere uno stock di debito estremamente elevato, stante la bassa crescita dell’economia italiana, è rischioso.

In ultima analisi, la sostenibilità del debito dipende in modo cruciale proprio dalla crescita del Pil, ed è lecito chiedersi quanti dei sostanziosi aiuti forniti all’economia avranno davvero un impatto positivo su di essa e quanti invece costituiranno nient’altro che  – il solito – debito cattivo.

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