Economia, Scienze economiche

Più ricchi, più liberi e…più inquinati? La relazione tra crescita, libertà economica e tutela dell’ambiente.

In un suo editoriale del 1919 Einaudi scrisse che il capitalismo è un po’ come il diavolo nel Medioevo:

“una parola mitica, con cui si spiegano senz’altro tutti i malanni dell’umanità. Come tutti gli altri miti, ha il vantaggio di essere semplice, incomprensibile, imperioso. Non ammette dubbi, non tollera incertezze snervanti di studiosi”.

Einaudi scriveva queste parole nel 1919, poco dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, ma le sue parole sono attuali ancora oggi. E se allora tra le principali accuse che si muovevano a questo sistema erano – come Einaudi stesso scrive nell’editoriale da cui sono tratte quelle parole – il fatto che i viveri fossero cari e che la guerra fosse stata scatenata da questo sistema, oggi si accusa il capitalismo di “sfruttare le risorse” del pianeta Terra oltre le possibilità fisiche, che la continua crescita ottenuta con questi metodi sia insostenibile e che, forse, se rinunciassimo al nostro stile di vita moderno potremmo vivere in un ambiente più sano e salubre. Sarà veramente così? Sebbene la questione fosse stata già affrontata altrove su Economia Italia, la parola la lasciamo agli studi ed ai dati.

Un primo punto importante da cui condurre la nostra breve analisi è evidenziare la relazione che esiste inquinamento e tasso di crescita del PIL; una relazione che può essere evidenziata grazie alla cosiddetta “curva di Kuznest ambientale”. Tale modello, elaborato dall’economista Simon Kuznest da cui prende appunto il nome, è una funzione degli effetti distributivi dell’inquinamento e dei danni ambientali. La curva di Kuznets rappresenta sul piano cartesiano il danno ambientale (degrado ambientale) in relazione al livello di reddito pro-capite della popolazione che, secondo l’economista, assume un andamento parabolico: nelle società povere il degrado ambientale è minimo poiché le attività economico-produttive della popolazione sono concentrate nell’agricoltura; con il crescere del reddito pro-capite (e quindi con l’aumento dei consumi) il danno ambientale aumenta (andando a stabilire una relazione positiva con il reddito) a causa dell’aumento della produzione e dei consumi; relazione che poi si interrompe al raggiungimento di un determinato livello di benessere, oltre il quale (complice un miglioramento nella tecnologia e quindi nell’efficienza produttiva) la qualità ambientale aumenta, a causa del fatto che la società è disposta a scambiare una parte della propria crescita economica (che rimane comunque positiva) per ottenere un maggiore livello di qualità ambientale. Insomma, le persone si preoccupano di più e dedicano più risorse alla protezione dell’ambiente quando hanno i mezzi per farlo.

La teoria, in questo senso, sembra essere ampiamente suffragata dai dati: ad esempio, uno studio del 2011 su “Climate Change Economics” uscito anche sul National Bureau of Economic Research ha esaminato l’atteggiamento delle persone nei confronti del riscaldamento globale dopo la recessione del 2008. Gli autori hanno scoperto che quando il tasso di disoccupazione di uno stato aumenta, il termine di ricerca “riscaldamento globale” su Google diminuisce in visualizzazioni. Anche in Stati in cui la tematica ambientale (complice l’orientamento politico) è molto sentita come la California, quando il sistema economico non cresce, si assiste ad un cambiamento nel modo in cui i residenti danno priorità alle aree problematiche ed un tasso di crescita del reddito negativo è “associato a una significativa diminuzione dei residenti della contea che scelgono l’ambiente come la questione politica più importante”.

Ma andiamo avanti. Un modo per misurare la performance ambientale di un Paese in un modo più oggettivo possibile è un indice elaborato dall’università di Yale chiamato – appunto – “Environmental Performance Index” (in sigla: EPI). I risultati che sono evidenziati tra il prodotto interno lordo pro capite e la performance ambientale sembrano dare ragione a Kuznest. Come mostra l’indice di Yale, esiste infatti una forte correlazione tra il prodotto interno lordo pro capite e il punteggio ambientale di un paese, osservando che “le democrazie ricche in genere salgono in cima alle nostre classifiche”.

Complichiamo un attimo la questione. Sebbene molti studi utilizzino l’anidride carbonica come variabile ambientale per testare l’ipotesi della Curva di Kuznest Ambientale, è tutt’altro che l’unica metrica che dovremmo considerare. La letteratura accademica ha anche esaminato la relazione tra crescita economica e metriche ambientali come l’inquinamento atmosferico, la qualità dell’acqua e il degrado del suolo.

Ad esempio, uno studio del 2018 sul Journal of Cleaner Production ha testato l’ipotesi della Curva di Kuznest ambientale su 15 paesi a basso, medio e alto reddito (45 in totale) utilizzando un indicatore di “impronta ecologica”. La metrica dell’impronta ecologica si aggiunge alla letteratura includendo una misurazione più completa della qualità dell’ambiente. Comprende gli effetti ambientali diretti e indiretti di agricoltura, pascolo, pesca, silvicoltura, terreni disponibili per l’assorbimento di CO2 e infrastrutture umane. Lo studio ha rilevato che “l’impronta ecologica tende prima ad aumentare ai livelli iniziali di reddito, poi tende a diminuire attraverso la crescita economica in ciascun paese del gruppo di reddito”, supportando quindi l’ipotesi dell’esistenza di una Curva come quella descritta da Kuznest.

Certamente, la crescita economica da sola non risolve tutti i problemi del nostro pianeta. Le diverse minacce ambientali sono uniche, complesse e derivano da una varietà di problemi e probabilmente garantiranno soluzioni uniche. L’enfasi sulla crescita economica non è quella di semplificare eccessivamente le sfide complesse, ma piuttosto di sottolineare il fatto che anche i livelli più elevati di ricchezza e prosperità non possono essere sommariamente ignorati. Il contributo e l’importanza della crescita economica per un ambiente più pulito e sano è inequivocabile.

Inseriamo, in questo contesto, la libertà economica. Un primo studio in merito è questo, condotto dal  in cui – introducendo nella stima della curva di Kuznest la sicurezza nei diritti di proprietà e il rispetto dello stato di diritto – si giunge alla conclusione che

“Delle migliori politiche, consistenti nella riduzione di sussidi distorsivi sugli agenti inquinanti, una maggiore sicurezza dei diritti di proprietà assieme all’imposizione di tasse pigouviane sull’inquinamento, possono “appiattire la curva” e – forse – far raggiungere il punto di flesso della stessa più rapidamente”.

Dello stesso parere è, d’altronde, l’economista danese Christian Bjørnskov che – nel suo paper intitolato “Economic Freedom and the CO2 Kuznets Curve” conclude che:

“I dati disponibili da 155 paesi osservati in periodi di cinque anni tra il 1975 e il 2015 indicano che la libertà economica non solo riduce le emissioni complessive di CO2, ma sposta anche il punto più alto dell’EKC a sinistra. In quanto tale, le prove suggeriscono che la transizione verso una tecnologia a basse emissioni appare in una fase precedente nelle società economicamente libere”.

E, andando avanti, anche utilizzando il già citato Environmental Protection Index combinato con i dati dell’indice della libertà economica calcolato dalla Heritage Foundation si può notare la forte correlazione che esiste tra libertà economica e protezione dell’ambiente:

Una relazione, questa, confermata da numerosi studi – raccolti in questo working paper – in cui si mostra come il livello di performance ambientale sia positivamente correlato con efficienza nella regolamentazione – ossia, regolamentare bene, non troppo –, apertura dei mercati al commercio internazionale ed innovazione tecnologica.

Insomma: lungi dall’essere una mitologica (e negativa) figura che infesta le nostre vite, la crescita economica e la libertà economica siano intimamente connesse con una delle più importanti sfide che i nostri governanti sono chiamati a rispondere. E se, per riprendere Einaudi, non vogliamo dire che si tratta di un utopico angelo (lungi dal farlo, perché il capitalismo ed il libero mercato sono fenomeni umani ed in quanto tali non perfetti ma perfettibili) non possiamo nemmeno dire che si tratti di un astratto “diavolo” da evitare ad ogni costo: un qualcosa, forse, che somiglia ad una modesta (ma pur sempre “salva”) anima purgatoriale.

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