Lavoro, Scienze economiche

Riduzione dell’orario di lavoro: utopia o realtà?

Nel dibattito odierno si fa un gran parlare della riduzione dell’orario di lavoro. Da più parti si indica questa politica come la panacea a tutti i mali, che può essere applicata indipendentemente dalla situazione economica del Paese. Le cose non stanno così e con questo articolo vedremo perché.

Un po’ di teoria

Il punto centrale da cui partiamo è la famosa funzione di produzione, che per semplicità espositiva assumiamo essere una Cobb-Douglas:

Facendo la derivata cross-parziale, ossia:

, notiamo che esiste una relazione positiva tra aumento della produttività del lavoro e stock di capitale. Tradotto in termini più semplici, è chiaro che con macchinari più moderni e dei lavoratori più qualificati per utilizzarli, per una unità di tempo si mantiene costante (e se possibile aumenta) la produttività totale.

Questo vuol dire che, a parità di ore lavorate, con maggiore capitale impiegato è possibile ridurre l’orario di lavoro mantenendo la produttività (almeno) costante.

I dati, in questo senso, sembrano confermare la teoria. Stando a quanto riportato da Our World In Data, infatti, esiste una relazione positiva tra l’intensità di capitale (misurata come rapporto tra stock di capitale e ore lavorate) e produttività del lavoro (misurata come ore lavorate su PIL a prezzi del 2010 espresso in Purchase Power Parity). Questo è possibile notarlo sia in termini assoluti (figura 1), sia in termini di tassi di variazione (figura 2):

Figura 1: Produttività del lavoro vs intensità di capitale (valori assoluti)
Figura 2: Intensità di capitale vs produttività del lavoro

Insomma, investimenti in capitale (fisico ed umano) portano a maggiore produttività del lavoro; cosa che, in prospettiva, consente di ridurre le ore lavorative. Se vogliamo ridurre l’orario di lavoro e, allo stesso tempo, rimanere produttivi la soluzione non può prescindere dal fare investimenti.

Riduzione dell’orario di lavoro: perché potrebbe essere utile

Intesa in questo senso, la riduzione dell’orario di lavoro derivata da una maggiore produttività (a seguito di investimenti) può rappresentare una cosa positiva che, in prospettiva, può consentire di risolvere (o mitigare) alcuni problemi del mercato del lavoro odierno.

Potrebbe, ad esempio, aiutare a mitigare il cosiddetto “gender pay gap” (e le relative conseguenze negative).

Una delle ragioni dell’esistenza di questo fenomeno, infatti, è la grande importanza che le donne danno alla flessibilità lavorativa nella scelta del lavoro; sia a causa di preferenze personali sia perché – spesso – la ricerca di un lavoro è spesso propedeutica alla formazione di una famiglia (che per essere gestita, anche solo in parte, richiede tempo). Le donne sarebbero costrette, insomma, a fare la famosa scelta tra lavoro e famiglia; cosa – questa – che le penalizzerebbe relativamente al primo aspetto.

Avere una maggiore flessibilità lavorativa potrebbe, in questo senso, essere utile. Diversi sono gli studi in materia che sembrano confermarlo. Un primo studio condotto dall’Institute for Labor Economics; il quale conclude che

[I risultati ottenuti] mostrano che più di un terzo delle donne attribuisce un valore positivo alla flessibilità, con le donne con un diploma universitario che danno più valore alla flessibilità rispetto alle donne con un diploma di scuola superiore

Un ulteriore studio, condotto su Olanda e Australia, mostra che solo sei donne su 10 sono state riassunte sei mesi dopo aver perso il lavoro, rispetto a sette uomini su 10; mostrando come l’assenza di flessibilità sia una barriera all’entrata non solo per chi un lavoro lo deve cercare ma anche per chi ce l’aveva già e lo ha perso.

Ancora, a livello europeo viene evidenziato come la flessibilità sia un parametro chiave per la scelta del lavoro, che a beneficiarne sarebbero i lavoratori di entrambi i sessi e che il settore privato sia molto più incline ad utilizzare la flessibilità oraria rispetto al settore pubblico.

Ma la flessibilità ha un costo…

Ma le risorse, si sa, sono scarse; incluso il tempo. Non possiamo consentire, a parità di altre condizioni, una maggior flessibilità e allo stesso tempo aspirare a migliorare la produttività. In altri termini, la flessibilità ha un costo in termini di produttività; un costo che solo con il capital deepening (utilizzo di maggior capitale per lavoratore nei processi produttivi) può essere attutito. In termini più semplici, avere processi produttivi a più alta intensità di capitale aumenta la produttività del lavoro permette di far godere a certe categorie di persone che ne hanno bisogno (abbiamo portato l’esempio delle donne, ma il discorso – per quanto manchino dei dati in proposito – può essere esteso ad altre categorie). Solo così la crescita economica e lo sviluppo umano non sono antitetici ma, al contrario, complementari (e altamente correlati).

La formazione, un requisito imprescindibile

Maggiori investimenti, dunque; non solo, però, in capitale fisico ma anche (e soprattutto) in quello umano. Promuovere gli investimenti senza la necessaria formazione di forza lavoro capace di sfruttarne il pieno potenziale sarebbe, in questo senso, poco lungimirante e annullerebbe tutti i benefici di cui sopra. Per questo il sistema educativo giocherà un ruolo fondamentale nel formare la forza-lavoro del domani (specie con riferimento alla riduzione delle differenze salariali); compatibilmente con lo sviluppo del capitale fisico.

Tirando le somme: riduzione dell’orario di lavoro, realtà o utopia?

Scherzosamente, si dice che una delle risposte migliori che si possono dare ad un esame di economia sia “dipende”. Nello scherzo, c’è però un fondo di verità: come spesso accade, nelle questioni complesse come la questione della riduzione dell’orario di lavoro non esiste una risposta univoca.

Quel (poco) che sappiamo, però, sembra indicarci delle cose molto evidenti: che solo con dei maggiori investimenti in capitale (fisico ed umano) è possibile aumentare la produttività del lavoro; e che solo aumentando la produttività del lavoro possiamo provare ad occuparci di tutte quelle persone che beneficerebbero (non poco) dalla flessibilità del lavoro stesso.

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