Salario minimo legale, una storia lunga vent’anni!
Il 7 giugno 2022 i negoziatori della presidenza del Consiglio e del Parlamento europeo hanno raggiunto un accordo politico provvisorio sul progetto di direttiva relativa al salario minimo legale nell’UE. Il dibattito sul tema ha preso di nuovo vigore e riesce a sopravvivere ancora dopo circa vent’anni.
Cosa ci dicono alcuni studi?
In particolare, Pietro Ichino e Tito Boeri e Roberto Perotti sollevavano in Italia la possibilità di introdurre un minimo salariale per legge; un contraltare alla necessità di maggiore differenziazione salariale tra aree del paese e imprese, cioè una decentralizzazione del sistema di contrattazione collettiva.
Questo sistema era entrato del dibattito pubblico durante la cosiddetta “primavera di Melfi” e il blocco di 21 giorni (il più lungo nella storia dopo i 35 giorni di Mirafiori) che aveva sancito la fine dell’idea di decentralizzare la contrattazione attraverso i contratti di programma.
Cappellari e Leonardi mostrano che ci sarebbe stato un minor aumento delle disuguaglianze tra anni ’90 e 2000 con l’introduzione di un salario minimo. Se è troppo alto, il salario minimo può causare disoccupazione, ma allo stesso tempo sostiene il potere d’acquisto dei lavoratori con retribuzioni basse. Se lo avessimo introdotto, cosa avremmo ottenuto in Italia? Un calcolo su dati del periodo 1993-2012 dice che l’aumento della diseguaglianza sarebbe stato molto inferiore.
Il potere del “monopsonio”
Più recentemente, Caselli, Mondolo e Schiavo hanno evidenziato come il salario minimo possa rappresentare un utile strumento in caso di eccessivo potere di mercato delle imprese sui lavoratori (il cosiddetto “monopsonio”). Infatti, quando le imprese hanno potere di mercato, riescono a pagare un salario inferiore al valore di quanto prodotto dai lavoratori. È un fenomeno diffuso specialmente al Sud e in alcuni settori. L’introduzione di un salario minimo aiuterebbe ad attenuarlo, secondo questo studio.
A partire dal 2014 il dibattito prende vigore con l’inserimento nel Jobs Act di un compenso limitato ai “settori non regolati da contratti collettivi”.
Può essere usato per contrastare la povertà?
Tuttavia, il tema, tra alti e bassi, non sparirà più dal dibattito. Ci tornano con proposte concrete il think-tank Tortuga, Garnero, Garnero e Scarpetta. Era previsto nel Jobs Act, ma fù escluso dai decreti attuativi. Eppure un salario minimo può essere uno strumento efficace nel contrastare l’aumento della povertà nel nostro paese. E’ fondamentale però che tenga conto del tessuto industriale e della eterogeneità delle varie aeree geografiche, e sia proporzionato alla produttività nazionale. A tutela per esempio dei fattorini si discute di un salario minimo, che non rientra in una fattispecie ben definita. È necessaria una buona dose di inventiva per stabilire la giusta cifra, perché se no ricadrebbre come un macigno sugli utili societari.
Cosa emerge dal dibattito politico?
In Parlamento, da PD ai 5S e FDL si moltiplicano le proposte di legge e il lavoro in Commissione Lavoro va avanti con numerose audizioni.
Nessuno si schiera apertamente contro il disegno di legge. Poiché una norma di questo tipo serve a fare chiarezza, in prospettiva permette all’Ispettorato del Lavoro di intervenire in caso di violazione. La norma trova poi sostegno in chi è spaventato dall’enorme mole di lavoro nero diffuso in Italia. Si spera che le imprese meno rispettose della legge possano essere spinte ai margini del mercato e ridotte alla chiusura; ciò, ove non si conformino alle previsioni di legge, garantendo così maggiore trasparenza sul piano della concorrenza (si pensi ai settori come l’edilizia, l’agro-alimentare).
Ancora, la nostra Costituzione non prende posizione fra le due alternative, lasciando al Parlamento scegliere fra le due soluzioni. L’idea di uno standard retributivo minimo fissato per legge, infatti, era già ben presente agli stessi padri costituenti, che nel 1947 introdussero un generale principio di proporzionalità e sufficienza del salario (art. 36 Cost.), ma si stabilì (con la previsione dell’art. 39 Cost.) che le tariffe salariali dei contratti collettivi fossero di applicazione imperativa per tutte le imprese attive sul territorio nazionale. La scelta fra i due sistemi è sempre, però, apparsa difficile anche ai parlamentari, tanto che entrambe le norme sono rimaste fino ad oggi inattuate.
Tuttavia, non si tratterà di un provvedimento che impone necessariamente all’Italia di adottare un compenso fisso per ogni ora di lavoro; poiché la direttiva lascia liberi gli Stati che sono privi di un sistema legale di adottare misure dirette a promuovere la contrattazione collettiva nazionale.
Il dibattito tra le parti sociali vedrà qualche risultato?
Si tratta di un risultato comunque importante, perché sollecita il Parlamento italiano a mettere ordine nel sistema delle relazioni industriali; o introducendo un salario minimo o promuovendo la rappresentatività di Confindustria e dei sindacati CGIL, CISL e UIL. La differenza fra le due misure è evidente, perché mentre il salario minimo interessa solo i lavoratori più poveri, il rafforzamento del sistema della contrattazione collettiva coinvolge i lavoratori di ogni livello.
Un interessante proposta sarebbe quella di ridurre il cuneo fiscale sulle fasce più basse; questo porterebbe portare però i salari più alti ad avvicinarsi alle retribuzione dei lavori con meno qualità, chiedendo quindi un aggiustamento anche dei loro salari. Inoltre, si dovrebbero trovare fondi pubblici per coprire la spesa che le imprese avrebbero a carico con l’aumento dei salari. L’alternativa potrebbe essere quella di ridurre la spesa pensionistica, anche se bisogna capire a chi la vogliamo ridurre, a coloro i quali sono andanti in pensione con il sistema retributivo o a quelli che andranno in pensione col sistema contributivo?
Pochi parlano di combattere l’evasione fiscale, anche se qualcosa sta uscendo dal pentolone. Pochissimi vogliono parlare di vera riforma fiscale che potrebbe aiutare non solo la produttività ma la crescita dei salari reali nel tempo. Una riforma dovrebbe considerare di tassare i redditi da capitale, le varie rendite, le royalties, i grandi patrimoni, redditi evasi ed elusi o indebitamente esenti, i trattamenti privilegiati ecc.
Fin quando le forze politiche non accetteranno di guardare la realtà, per quella che è, e di smettere di strumentalizzare la questione fiscale a fini elettorali, non ci sarà niente da fare e sarà meglio evitare di cadere in discorsi oziosi.