Lavoro, Scienze economiche

Salario minimo: un bene per la produttività?

Attualmente uno dei più grandi dibattiti dell’economia, complice il Nobel assegnato l’anno scorso, è il salario minimo. I sostenitori dicono, tra le altre cose, che l’imposizione di un salario minimo potrebbe aumentare la produttività del lavoro; in quanto farebbe guadagnare di più il lavoratore incentivandolo così a produrre di più. Sarà veramente cosi? Per scoprirlo possiamo studiare l’evoluzione del fenomeno negli USA; prendendo ad esempio uno studio comparso sul “Mercatus Center”.

Salario minimo e produttività: quale nesso?

L’analisi del fenomeno in parola può essere fatta considerando, per gli Stati Uniti, il periodo che va dal 1985 al 2012. I risultati di questa analisi sono visibili nel grafico qui sotto:

Cosa possiamo vedere dalla precedente figura? Sostanzialmente vediamo che esiste una relazione inversa tra questa misura, occupazione e livello di istruzione; notando che al decrescere di quest’ultimo ed all’aumentare del salario minimo aumenta anche il livello di disoccupazione.

I teenager la categoria più colpita

I possibili effetti negativo di un salario minimo troppo elevato, però, non hanno conseguenze uniformemente distribuite. Come mostra questo altro studio, infatti, una delle cause che hanno comportato una caduta del tasso di occupazione giovanile negli Stati Uniti è stato il salario minimo; provocando, nel lungo periodo, degli effetti negativi sull’accumulazione di capitale umano e – quindi – sulla crescita economica.

Un modello più complesso

D’altra parte, i modelli finora presentati adottano un approccio statico; che non considera né l’eterogeneità dei lavoratori e dei datori di lavoro né la possibilità di aggiustamenti dinamici nel corso del tempo. Per osservare se gli effetti negativi di questa misura negli USA siano – almeno in parte – spiegati dalla “staticità” dei modelli finora adattati, un altro studio della George Mason University adotta un’approccio differente.

Gli autori costruiscono un mercato del lavoro competitivo; composto da quattro tipi di dipendenti e quattro tipi di datori di lavoro. Nella simulazione, dipendenti e datori di lavoro agiscono per raggiungere un livello minimo di soddisfazione, il che significa che non seguono un comportamento di massimizzazione dell’utilità (cosiddetto “razionale”). Questo mercato del lavoro è dinamico; pertanto è significativamente diverso dall’approccio standard “domanda e offerta”. Il modello può funzionare anche in ipotesi di concorrenza e di monopsonio. Un altro vantaggio del modello è che è possibile apportare modifiche ai parametri e valutarne l’effetto sulle variabili indipendenti.

I risultati, anche in questo caso sono chiari. Nelle parole degli autori, infatti, giungono alla conclusione che

Il nostro modello prevede un aumento del tasso di disoccupazione come conseguenza di un aumento del salario minimo. Nella letteratura recente, ci si aspetta che un salario minimo fissato più alto del precedente equilibrio provochi disoccupazione [un aumento della disoccupazione] tra i gruppi a basso salario. Secondo un’indagine di Alan Hochstein, su 13 studi pubblicati tra il 1970 e il 1978, 12 hanno riferito che le leggi sul salario minimo erano associate a una significativa riduzione dell’occupazione; mentre quattro non hanno riportato effetti significativi

Salario minimo: si o no?

Il salario minimo è stato sempre oggetto di grande dibattito nella scena italiana; complice, forse, la grande attenzione che il nostro Paese dà al mondo del lavoro. Spesso, però, nei dibattiti molto accesi si perde la complessità di un fenomeno che, lungi dall’essere semplice, divide le persone e gli economisti; anche perché se adeguatamente calibrato può portare a benefici per l’economia.

Come al solito, solo con pragmatismo ed attenzione ai dati possiamo prendere le migliori decisioni per noi e, nel caso del salario minimo, per l’economia nel suo complesso.

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