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TIGRAY: STORIA ED EVOLUZIONE DI UN CONFLITTO SILENZIOSO

A seguito della presa del sito patrimonio dell’Unesco di Lalibela, l’informazione italiana sembra essersi improvvisamente (e quantomeno marginalmente) interessata alla guerra civile in atto nel Tigray tra le forze congiunte di Etiopia ed Eritrea e i ribelli del Fronte di Liberazione del Tigray, regione nel nord dell’Etiopia e confinante con l’Eritrea.

Un conflitto che invece non sembra scaldare troppo le ambasciate occidentali, rischiando di diventare l’ennesima ecatombe a livello umanitario prima ancora che l’ennesimo fulcro di nuove tensioni perenni a livello geopolitico.

  1. Cosa sta succedendo nel Tigray?

Come altri casi tristemente famosi in Africa (il genocidio del Ruanda) e nel mondo (Guerra dei Balcani), le radici del conflitto affondano nelle divergenze etniche presenti nel paese. Fin dalla fine della guerra civile infatti, l’Etiopia è stata governata da una coalizione denominata Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (EPRDF), a sua volta guidata dal Fronte Popolare di Liberazione del Tigray, partito di ispirazione socialista e fortemente impegnato verso il federalismo etnico, una dottrina che fa dell’autonomia tra gruppi etnici un caposaldo del governo di una nazione.

 Nel 2018 l’elezione di Abiy Ahmed a primo ministro ha segnato un netto cambiamento nelle gerarchie di potere del paese. Il presidente si è infatti presentato con un programma di superamento del “supermercato” del federalismo etnico in favore di un tentativo di costruzione di una identità nazionale, venendo sin da subito salutato con favore dalla comunità internazionale.

A livello partitico, Ahmed ha perseguito l’obiettivo unificando nel 2019 i partiti della coalizione nel Partito della Prosperità, mentre il Fronte Popolare ha rifiutato la fusione ritrovandosi all’opposizione. Inoltre, il premier ha fatto piazza pulita degli avversari politici, optando per un netto “cambio della guardia” a capo di incarichi governativi, militari e amministrativi nell’ambito di una campagna contro la corruzione, apportando anche vari provvedimenti in favore delle libertà individuali

Ma è nel 2020 che è avvenuta una vera e propria escalation del conflitto, con il Fronte di Liberazione relegato al governo della propria “roccaforte” Tigray, unica regione in cui detiene ancora la maggioranza. A settembre, il Fronte ha violato il “congelamento” delle elezioni imposto dal governo centrale per fronteggiare la pandemia indicendo nuove elezioni regionali, alle quali Addis Abeba, dopo averle dichiarate illegali, ha risposto con il taglio drastico di fondi destinati alla regione.

Il conflitto vero e proprio è iniziato ufficialmente il 4 novembre, quando il governo centrale ha interrotto i voli verso la regione, dichiarato lo stato di emergenza e risposto militarmente ad una prima offensiva dei miliziani tigrini volta a guadagnare armi.

Nel mese successivo, nonostante l’isolamento della regione, gli scontri hanno assunto dimensioni sempre più ingenti, dato anche il singolare ingresso in guerra al fianco del governo centrale dell’Eritrea, paese fino a un decennio prima in guerra con Addis Abeba, portando il conflitto ad assumere dimensioni regionali.

I ribelli hanno fin da subito sfruttato la conoscenza del territorio montuoso della regione, pieno di vecchie basi militari risalenti alla guerra contro i Mengistù ed utilizzate come piccole roccaforti, vista anche la perdita della capitale della regione Macallè. In seguito si sono aggiunte azioni mirate di guerriglia volte a fiaccare l’esercito regolare sfruttando la superiore conoscenza del territorio.

Nel mese di luglio, il Fronte sembra essere passato all’offensiva, tanto da avere riconquistato Macallè e parte della regione, estendendosi anche alla regione dell’Afar, ufficialmente per “ridurre le capacità di combattimento del nemico”, come spiega il portavoce Getachew Reda. Ufficiosamente l’espansione ha invece lo scopo di occupare l’autostrada principale del paese, che collega l’Etiopia al porto di Djibouti. Emblematica in questo senso è stata la presa del sito Patrimonio dell’UNESCO Lalibela, che ha garantito visibilità mediatica ai ribelli, ribadendo ancora una volta il cambiamento del loro approccio al nemico.

Anche il Tigray sembra avere cercato fin dall’inizio alleati internazionali nel conflitto. Secondo testimoni oculari attendibili infatti, il presidente del Tigray Debretsion Gebremichael avrebbe incontrato a dicembre il presidente egiziano Al-Sisi a Juba, capitale del Sud Sudan.

L’incontro è servito a definire la posizione del Sud Sudan sulla divisione delle acque del Nilo e sulla divisione della diga GERD, su cui l’Etiopia si contrappone all’Egitto.

Non è difficile immaginare che a quel tavolo si sia parlato anche del conflitto con Addis Abeba, e che il Sudan abbia invece chiesto per se aiuti economici per risanare un paese da anni sull’orlo del collasso.

Esperti hanno inoltre ipotizzato che all’incontro si sia progettato un “canale sicuro” per foraggiare il Tigray con armi comprate dall’Egitto tramite il confinante Sudan, anche se questa ipotesi non sembra trovare riscontro negli ultimi atteggiamenti del Sudan, appeso piuttosto freddo nei confronti di un possibile coinvolgimento indiretto o diretto nel conflitto.

Come nella maggior parte delle guerre moderne, il prezzo più alto lo stanno pagando i civili. La popolazione del Tigray si trova stretta nella morsa tra territorio etiope e il confine con l’Eritrea ed il Sudan, isolata dal resto del mondo senza acqua e corrente elettrica e con gli aiuti umanitari bloccati dall’esercito.Agli intenti del presidente Ahmed di superare le tensioni etniche hanno fatto seguito la ferocia e l’accanimento dei soldati dell’esercito etiope contro i ribelli, con stupri generalizzati ed uccisioni sommarie ormai all’ordine del giorno.

Suona emblematico il messaggio registrato di nascosto dal patriarca della Chiesa ortodossa etiope Abune Mathias, che ha denunciato i crimini quotidiani contro la popolazione tigrina ricordando che “Dio giudicherà tutto”.

Gli etiopi e gli eritrei presenti nella regione invece rischiano di essere “presi nel mezzo” tra i ribelli tigrini che potrebbero imprigionarli o ucciderli considerandoli nemici etnici e l’esercito regolare etiope, che potrebbe considerarli ribelli o informatori nemici.

La scarsità di beni nella regione ha inoltre reso i campi profughi un obiettivo sia dei ribelli tigrini sia dell’esercito eritreo, entrambi in costante ricerca di rifornimenti. Ann Encontre, responsabile dell’agenzia ONU in Etiopia ha dichiarato che i profughi eritrei presi in mezzo sono “decine di migliaia…intrappolati ed impossibilitati a muoversi a causa del movimento costante delle truppe”, mentre testimoni dai campi raccontano di non avere avuto niente da mangiare o bere per un mese, e di essere stati costretti a mangiare piante e foglie per sopravvivere, il tutto sotto la minaccia costante delle scorribande dei ribelli, i quali in più occasioni hanno fatto uso di bombe a mano, lanciandole contro i ribelli terrorizzati.

Concludendo, se la responsabilità storica del conflitto verrà fuori col tempo, quel che è certo è che l’immobilismo delle istituzioni internazionali, la natura stessa del conflitto e la possibile entrata in gioco di nuovi attori rischiano di allungare ulteriormente il conflitto, minando ulteriormente la stabilità di una regione, quella dell’africa subsahariana, che ha ancora oggi troppi punti interrogativi al suo interno.

Allego infine un video in cui, come team di Economia Italia, abbiamo già trattato l’argomento con il Dott. Marco Di Lidio, responsabile dell’Area Geopolitica e Analista responsabile del Desk Africa e del Desk Russia e Balcani presso il Ce.S.I.

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