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Unintended consequences: gli effetti redistributivi della politica monetaria

Una delle verità che nei corsi di macroeconomia si danno per assodate è che la moneta e la politica monetaria siano, nel lungo periodo, neutrali ossia che non abbiano alcun effetto né sul livello del reddito né, allo stesso tempo, sulla sua distribuzione. Molti sono stati gli studi che si sono concentrati sulla neutralità o meno della moneta osservando gli effetti che le politiche monetarie hanno nel lungo periodo, nella determinazione del reddito pervenendo – in accordo con la teoria – ad una sostanziale unanimità nel definire la moneta neutrale. Meno concordi sono, tuttavia, le opinioni circa gli effetti delle politiche monetarie nella creazione di disuguaglianze di reddito e di ricchezza. L’oggetto di indagine principale del nostro articolo sarà proprio il seguente: la politica monetaria ha degli effetti redistributivi in merito al reddito e/o alla ricchezza presenti all’interno del sistema economico? La parola, come sempre, ai dati.

Un primo aiuto che ci può essere utile nel comprendere se – e come – la politica monetaria abbia degli effetti distributivi viene fornito in una pubblicazione del Fondo Monetario Internazionale (IMF), dal titolo “Monetary Policy for all? Inequality and the Conduct of Monetary Policy”, che va a riassumere – a sua volta –  uno studio condotto in un working paper del Fondo Monetario Internazionale dal titolo “Should Inequality Factor into Central Banks’ Decisions?”.  Tale articolo, pur riconoscendo come la disuguaglianza rimane al di fuori dei mandati delle banche centrali, i principali banchieri centrali stanno discutendo sempre più questioni relative agli effetti distributivi delle politiche monetarie da loro portate avanti. Allo stesso tempo, i recenti progressi nella teoria economica gettano nuova luce sull’interazione tra politica monetaria e disuguaglianza. Secondo tali autori, sarebbe ormai accettato all’interno del mondo accademico e delle principali banche centrali che la disuguaglianza di ricchezza e reddito influenzi l’efficacia della politica monetaria. Questo perché i poveri, che tendono ad essere più limitati dalla liquidità rispetto ai ricchi, aumentano di più i loro consumi man mano che i loro redditi aumentano in risposta a un taglio dei tassi di interesse. Lo stesso taglio dei tassi stimola quindi maggiormente il consumo aggregato in un’economia con una percentuale maggiore di poveri. In relazione a ciò, sostengono gli autori, ci sono prove a sostegno del fatto che la politica monetaria stessa può influenzare la disuguaglianza.

La ricerca già menzionata si chiede, in sintesi, se la disuguaglianza influenzi il modo in cui la politica monetaria dovrebbe essere condotta in un’economia in cui i cicli economici sono guidati dalle innovazioni tecnologiche. In questo contesto, gli autori immaginano l’esistenza di una persona ricca – “R” – che possiede tutto il capitale. Il reddito di R è quindi composto da dividendi e salari al netto delle imposte. Al contrario, una persona povera – di nome P – riceve solo salari e un trasferimento dal governo finanziato dall’imposta sui dividendi. Nel modello già menzionato, i profitti e il reddito da capitale aumentano in risposta a shock positivi di produttività, andando così a mostrare un aumento della disuguaglianza. Inoltre, i salari sono orientati alla tecnologia: quando la produttività aumenta, la quota di R sul reddito salariale totale aumenta, mentre quella di P diminuisce. Questi meccanismi sono coerenti con i dati micro e macroeconomici statunitensi e corrispondono agli effetti empirici degli shock tecnologici sulla disuguaglianza dei consumi.

Al netto di queste considerazioni preliminari, gli autori studiano le implicazioni per la politica monetaria in due contesti. Nel primo, la banca centrale sceglie il miglior percorso possibile dei tassi di interesse con informazioni complete e preoccupandosi allo stesso modo di tutti gli individui. Questa impostazione è denominata dagli autori “criterio ottimale”. Nella seconda impostazione, la banca centrale imposta la politica monetaria secondo una cosiddetta regola di Taylor, che prescrive un dato tasso di interesse in base al fatto che l’inflazione e la produzione si discostino dai livelli desiderati. Questa seconda impostazione è utile perché è più vicina a ciò che le banche centrali fanno nella pratica. Nello studio già menzionato, per dare una definizione, il concetto rilevante di disuguaglianza è la differenza di consumo tra ricchi e poveri.

Ciò, per gli autori, significa che a seguito di uno shock positivo della produttività, i tassi di interesse dovrebbero essere fissati al di sotto del livello implicito in una regola standard di Taylor che tenga in considerazione solo produzione e all’inflazione: questo perché una politica di questo tipo, porterebbe – secondo gli autori – a salari più alti che avvantaggiano i poveri. Oltre a ridurre le disuguaglianze, una tale politica sarebbe – sempre secondo gli autori – vantaggiosa più in generale perché migliora l’inflazione e i risultati della crescita evitando un eccessivo inasprimento del tasso di interesse in risposta a uno shock positivo della produttività; sottolineando come questi risultati dovrebbero suggerire un maggior lavoro di ricerca empirica sulla questione.

Della questione, oltre al Fondo Monetario Internazionale, se ne è occupata la nostrana Banca Centrale Europea, in un analogo scritto presente sul suo sito internet, pubblicato come parte del dello ECB Economic Bullettin. Il primo grande dato che tale articolo ci presenta è che nella maggior parte delle economie avanzate, la disuguaglianza di reddito è aumentata dal 1980. Questa tendenza è illustrata dal grafico 1, che mostra il reddito nazionale al lordo delle imposte del 10% superiore delle famiglie come percentuale del reddito nazionale ante imposte del 50% inferiore delle famiglie. Possiamo vedere che la disuguaglianza di reddito è sostanzialmente più alta negli Stati Uniti di quanto non lo sia nei paesi europei in quel grafico. Inoltre, anche gli Stati Uniti hanno visto l’aumento più forte nel periodo 1980-2019. Al contrario, i tre paesi nordici (Finlandia, Norvegia e Svezia) hanno livelli relativamente bassi di disuguaglianza di reddito. È anche evidente che solo un paese – la Spagna – ha visto un calo della disuguaglianza di reddito nel periodo in questione. Il tutto, illustrato dal seguente grafico:

La tassazione del reddito e i trasferimenti governativi hanno, sicuramente, un effetto frenante sulla disuguaglianza di reddito, con la natura precisa di tale impatto che varia da un paese all’altro sulla base dei loro sistemi fiscali. Se confrontiamo la distribuzione del reddito disponibile con quella del reddito di mercato per i quattro maggiori paesi dell’area dell’euro, il Regno Unito e gli Stati Uniti (grafico 2), l’effetto frenante delle imposte dirette (ad esempio attraverso imposte progressive sul reddito) e dei trasferimenti è evidente. Il grado di disuguaglianza di reddito è indicato dal coefficiente di Gini, che misura la misura in cui la distribuzione del reddito tra individui / famiglie si discosta da una distribuzione perfettamente uguale, con un valore di 0 che indica l’uguaglianza assoluta e un valore di 100 che segnala la piena disuguaglianza (per cui il gruppo di reddito superiore riceve tutto il reddito). In particolare, possiamo vedere che l’importo della redistribuzione del reddito effettuata dal governo è molto più alta nei paesi europei (calo medio di 20 punti base nel coefficiente di Gini) rispetto agli Stati Uniti (calo di 14 punti base). Tuttavia, non è chiaro, a priori, in che misura il più alto grado di redistribuzione in Europa possa spiegare l’aumento più limitato della disuguaglianza di reddito nei paesi europei in questione (come mostrato nel grafico precedente). Due studi recenti hanno concluso che la differenza tra Europa e Stati Uniti in termini di aumento della disuguaglianza di reddito è guidata principalmente dal reddito di mercato, cioè dal reddito prima della redistribuzione.

Il consumo è sostanzialmente meno concentrato della ricchezza netta, il che può suggerire che il benessere economico è distribuito in modo più uniforme della ricchezza. La disuguaglianza dei consumi è talvolta considerata un indicatore migliore del tenore di vita e del benessere rispetto alle misure basate sul reddito o sulla ricchezza. Come mostra il grafico seguente, il coefficiente di Gini della spesa per consumi è in genere inferiore a quello del reddito disponibile, riflettendo il fatto che le famiglie a reddito più elevato hanno un tasso di risparmio più elevato. Il recente aumento della disuguaglianza di ricchezza ha dimostrato di essere il risultato non solo di tassi di risparmio (lordi) più elevati, ma anche di rendimenti più elevati per le famiglie più ricche, suggerendo che una maggiore concentrazione del reddito da capitale può essere un importante motore della disuguaglianza di ricchezza.

In tutto questo, la politica monetaria, secondo BCE ha contribuito secondo tre canali: il primo è il canale della remunerazione del risparmio (e del costo del debito), che deriva dalle differenze nelle dimensioni e nella composizione dei bilanci delle famiglie. A causa di tali differenze, una variazione dei tassi di interesse avrà effetti opposti sulle condizioni economiche dei mutuatari netti e dei risparmiatori netti. Il secondo è il canale dei prezzi delle attività, che deriva dall’eterogeneità dei portafogli delle famiglie e dalle diverse plusvalenze (o perdite) che si ottengono quando l’orientamento della politica monetaria cambia. A tale riguardo, i movimenti dei prezzi delle attività indotti da politiche espansive hanno maggiori probabilità di avvantaggiare i ricchi (e, in alcuni casi, la classe media) nella misura in cui detengono attività a più lungo termine (come spiegato più dettagliatamente dall’articolo). Il terzo canale riguarda il reddito familiare e nasce perché l’elasticità dell’occupazione rispetto al ciclo economico è eterogenea tra gli individui e dipende dalle caratteristiche individuali. Il breve articolo di BCE conclude che sebbene non sia nel mandato delle banche centrali quello di ridurre la disuguaglianza,l’allentamento della politica monetaria sembrerebbe, nel complesso, aver smorzato la disuguaglianza economica negli ultimi anni. Gli effetti diretti di tale allentamento sono eterogenei a causa delle differenze nella proprietà degli alloggi da parte delle famiglie e, di conseguenza, della prevalenza dei mutui. Ancora più importante, l’allentamento della politica monetaria ha chiaramente un impatto sulla riduzione delle disuguaglianze attraverso i suoi effetti indiretti, con conseguente aumento dell’occupazione in particolare per le famiglie a basso reddito. 

Di opinione diversa, tuttavia, sono diversi studiosi che hanno pubblicato un articolo sulla prestigiosa rivista “Center for Economic Policy Research” in cui si sostiene – al contrario – che delle politiche monetarie espansive possono portare ad un aumento della disuguaglianza.  In un recente studio, gli autori analizzano infatti gli effetti distributivi della politica monetaria su reddito, ricchezza e consumi. La principale fonte di dati sono i registri fiscali a livello individuale per l’intera popolazione della Danimarca, con informazioni dettagliate sul reddito e sui bilanci per il periodo 1987-2014. Ciò equivale a più di 70 milioni di osservazioni individuali. Nei registri fiscali, gli autori osservano tutte le principali componenti del reddito disponibile delle famiglie (ad esempio stipendi, dividendi e interessi passivi) nonché le principali componenti del bilancio (ad esempio abitazioni, azioni e debito). Gli autori poi combinano i registri fiscali con altre fonti di dati amministrativi, soprattutto un registro automobilistico con informazioni sugli acquisti di auto – una componente importante del consumo di beni durevoli.

L’obiettivo dello studio è stimare in che modo una diminuzione del tasso di riferimento influisce sulle famiglie in ogni posizione della distribuzione del reddito. Una sfida empirica chiave è che il tasso di riferimento danese può essere endogeno alle condizioni economiche locali. Gli autori risolvono questo problema sfruttando l’impegno di lunga data delle autorità monetarie danesi per la stabilità dei tassi di cambio (il che implica che la Danimarca ha effettivamente importato la sua politica monetaria da Francoforte per 35 anni). Quando la BCE modifica il suo tasso di interesse principale, la banca centrale danese in genere modifica il suo tasso lo stesso giorno per ripristinare il differenziale del tasso di interesse che è coerente con un tasso di cambio fisso. Ciò introduce una fonte di variazione esogena del tasso di riferimento danese che sfruttiamo per l’identificazione. Concretamente, gli autori le variazioni del tasso di riferimento della BCE come strumento per le variazioni del tasso di riferimento danese, controllando al contempo in modo esaustivo il contesto macroeconomico, le ricadute transfrontaliere e le tendenze secolari nella disuguaglianza.

La serie di risultati in oggetto riguarda gli effetti della politica monetaria sul reddito disponibile, mostrando come una politica monetaria più espansiva aumenta il reddito disponibile a tutti i livelli di reddito, ma che i guadagni sono altamente eterogenei e aumentano monotonamente nel livello di reddito. Come mostrato nella Figura sottostante, una diminuzione del tasso di riferimento di un punto percentuale aumenta il reddito disponibile di meno dello 0,5% nella parte inferiore della distribuzione del reddito, di circa l’1,5% a livello di reddito mediano e di oltre il 5% per l’1% superiore in un orizzonte di due anni.

Gli autori identificano i principali canali economici alla base di questo risultato considerando separatamente ogni componente del reddito disponibile. Coerentemente con la teoria e la percezione dei responsabili politici, una politica monetaria più espansiva ha il maggiore effetto sul reddito salariale a livelli di reddito relativamente bassi, riflettendo un considerevole aumento dell’occupazione per questo gruppo. Ma la maggior parte delle altre componenti del reddito disponibile (ad esempio guadagni sotto forma di reddito d’impresa più elevato, reddito da borsa più elevato e minori spese per interessi) contribuiscono a un gradiente di reddito positivo.

La seconda serie di risultati elaborata dagli autori riguarda gli effetti della politica monetaria sui valori degli asset attraverso variazioni dei prezzi degli immobili e dei prezzi delle azioni. Gli autori mostrano come una politica monetaria più espansiva crea sì delle plusvalenze per tutti i gruppi di reddito, ma con un gradiente di reddito positivo pronunciato (il che vuol dire, insomma, che i possessori di azioni sono avvantaggiati dalla politica monetaria espansiva). Come mostrato nella Figura seguente, una diminuzione del tasso di riferimento di un punto percentuale aumenta i valori delle attività di circa il 20% del reddito disponibile nella parte inferiore della distribuzione del reddito e di circa il 75% del reddito disponibile nella parte superiore su un orizzonte di due anni (il che implica rendimenti delle attività su abitazioni e scorte del 6-8%). Ciò suggerisce che gli effetti di una politica monetaria più espansiva attraverso l’apprezzamento delle attività sono generalmente molto più grandi degli effetti derivanti da un reddito disponibile più elevato. Il gradiente del reddito riflette in gran parte che le famiglie a livelli di reddito più elevati detengono più attività rispetto al loro reddito disponibile e, in misura minore, che i rendimenti delle attività creati dalla politica monetaria sono più elevati.

Gli autori, inoltre, studiano anche gli effetti distributivi della politica monetaria sui consumi e sull’accumulazione di ricchezza. Il vincolo di bilancio intertemporale richiede che i guadagni creati da una politica monetaria più morbida, sia sotto forma di reddito disponibile che di plusvalenze, debbano essere consumati o aggiunti alla ricchezza della famiglia. Ma modificando i tassi di interesse di mercato, la politica monetaria cambia anche il trade-off tra consumo e risparmio in modo più ampio, come mostrato dall’elasticità intertemporale della sostituzione. I risultati indicano che i guadagni di consumo e di ricchezza di una politica monetaria più espansiva sono entrambi distribuiti in modo altamente diseguale.

Teoricamente, il debito è direttamente importante per l’esposizione a diversi canali della politica monetaria e può ulteriormente modellare le risposte dei consumi nella misura in cui rappresenta un vincolo finanziario. Mostriamo empiricamente che il debito delle famiglie svolge un ruolo importante nella trasmissione della politica monetaria. All’interno dei gruppi di reddito, mostriamo che gli effetti stimati della politica monetaria tendono ad aumentare monotonamente con la leva ex ante. All’interno di gruppi con leva simile, il gradiente di reddito è generalmente più debole rispetto al campione completo. Tuttavia, rimane una significativa eterogeneità anche dopo aver tenuto conto della leva finanziaria. In particolare, l’1% superiore si distingue per i maggiori guadagni derivanti da una politica monetaria più morbida rispetto a qualsiasi altro gruppo di reddito a ciascun livello di leva finanziaria.

Infine, per mettere in relazione i summenzionati risultati con il più ampio corpus di ricerche esistenti sulla disuguaglianza (ad esempio Piketty 2014), gli autori si impegnano ad effettuare una simulazione che riassume le implicazioni distributiva delle summenzionate stime. I risultati suggeriscono che una politica monetaria più espansiva aumenta inequivocabilmente la disuguaglianza di reddito aumentando le quote di reddito nella parte superiore della distribuzione del reddito e abbassandole nella parte inferiore. Come mostrato nella Figura 3, tenendo conto dei canali diretti e indiretti, la riduzione del tasso di riferimento di un punto percentuale aumenta la quota di reddito disponibile aggregato per l’1% superiore di circa il 3,5% su un orizzonte di due anni e la riduce di quasi il 2% per il gruppo di reddito più basso.

Di parere, ancora, discordante è uno studio condotto da Bundesbank (la banca centrale tedesca), conosciuta tradizionalmente per la posizione “conservatrice” in materia di politica monetaria. In una nota, gli economisti della Bundesbank hanno utilizzato le ricerche attuali per indagare quali effetti distributivi avrebbero potuto effettivamente avere le misure di politica monetaria non standard dell’Eurosistema. Hanno scoperto che le misure di politica monetaria non standard potrebbero aver aumentato la disuguaglianza di ricchezza a breve termine aumentando i prezzi degli asset. L’effetto a medio-lungo termine, tuttavia, non era ancora chiaro, poiché dipendeva fortemente dai processi di aggiustamento macroeconomico innescati in risposta alle misure di politica monetaria.

Lungi dall’essere un argomento su cui esiste concordia tra gli economisti, identificare la direzione e quantificare l’impatto delle politiche monetarie è di cruciale importanza per definirne gli impatti nel breve periodo (posto che, come detto all’inizio, le politiche monetarie sono neutrali): in effetti, qualora la politica monetaria avesse dei (sufficienti) effetti redistributivi con i connessi guadagni/perdite, diventa molto facile (ma per ora, non dimostrato) che i prezzi muterebbero in maniera non uniforme, per cui si perde la percezione dei prezzi relativi; modificando anche l’allocazione “ottimale” di consumo ed investimento.

Insomma, la politica monetaria – sebbene neutrale nel lungo periodo – ha degli effetti (anche di natura redistributiva) nel breve. La vera sfida è, più che illustrare questo fatto in sé, quantificarlo in termini di direzione ed intensità per comprendere a pieno come la moneta, il “velo” dei rapporti economici, nel breve periodo sia determinante non solo per un astratto concetto di natura economica ma anche – e se vogliamo soprattutto – per la nostra “everyday life”.

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