Site icon EconomiaItalia

VACCINI E BREVETTI: UN FALSO PROBLEMA?

Coronavirus covid-19 experimental vaccine in a laboratory, conceptual image.

Negli ultimi mesi, di fronte alle difficoltà delle aziende farmaceutiche nel produrre dosi a sufficienza per soddisfare l’elevatissima domanda, si è acceso un dibattito intorno all’opportunità di sospendere i diritti di proprietà intellettuale, compresi i brevetti, sui vaccini e altri trattamenti contro il Covid-19. Chi sostiene che bisognerebbe procedere in questa direzione ritiene che i brevetti ostacolino l’aumento della produzione, e pertanto sospendendoli più aziende potrebbero produrre i tipi di vaccini autorizzati finora. In Italia, le ONG Oxfam ed Emergency hanno inviato una lettera-appello al Governo affinché si impegni a sostenere la sospensione delle regole che tutelano la proprietà intellettuale sui brevetti dei vaccini anti-Covid. Alcuni esponenti del M5s, tra cui l’ex Ministro della Salute Giulia Grillo, hanno presentato una mozione alla Camera chiedendo di superare la tutela brevettuale e di “rafforzare la capacità produttiva e tecnologica delle aziende italiane nell’ottica di garantire la produzione dei vaccini a RNA, anche attraverso un adeguamento degli impianti esistenti o la realizzazione di impianti ex-novo”. Anche il ministro della Salute Roberto Speranza sostiene che “di fronte a una crisi sanitaria di queste dimensioni non regge l’idea di una proprietà esclusiva dei brevetti, perché il vaccino deve essere un bene comune e per tutti”. Il ragionamento, ripreso anche a livello globale da più parti, è piuttosto semplice: di fronte a una pandemia che è globale, il vaccino non può che essere altrettanto; come affermato dal sindaco di New York: “in una pandemia la proprietá intellettuale non dovrebbe importare. Dovrebbero farlo le vite umane (…) non è il momento di lasciare alle forze del libero mercato il potere di dettarci cosa fare” (1). Ad ottobre dell’anno scorso India e Sud Africa hanno fatto richiesta all’OMS per una deroga ai diritti di proprietà intellettuale su farmaci, vaccini e dispositivi medici legati al contenimento della pandemia, in modo da aumentare la produzione a livello globale (2). Questa proposta è stata respinta da Unione Europa, Regno Unito e Stati Uniti, che invece vedono nella proprietà intellettuale un fattore cruciale nello sviluppo di vaccini e medicinali. L’1 marzo, l’OMS si riunirà per valutare la proposta avanzata dai due paesi.

Tuttavia non mancano le ragioni di chi argomenta che, piuttosto che risolvere il pur grave problema della carenza di dosi sufficienti, sospendere i brevetti potrebbe rivelarsi una scelta poco opportuna, sia perché un’azione simile rischierebbe di avere effetti negativi sul medio-lungo periodo nel settore farmaceutico, sia -soprattutto- perché non è detto la che causa della scarsa disponibilità di dosi risieda nella proprietà intellettuale.

Per capire la questione partiamo dall’inizio. Un brevetto è uno strumento giuridico che conferisce al soggetto che lo possiede (in questo caso le case farmaceutiche come Pfizer/BioNTech, Moderna, Astrazeneca/Oxford) il diritto esclusivo di sfruttamento della propria invenzione in un dato territorio. Quindi un brevetto serve per tutelare ed incentivare l’invenzione: per tutta la sua durata (circa 20 anni) l’innovatore gode di un “premio” -il monopolio- ed è dunque l’unico che può produrre, vendere , utilizzare ciò che ha inventato. L’azienda che possiede il brevetto può disporne a proprio piacimento ( ad esempio, anche concedendo volontariamente una licenza ad altre aziende farmaceutiche, permettendo quindi a queste di produrre il vaccino). Proprio la prospettiva di poter godere indisturbatamente del profitto futuro è ciò che spingerebbe l’innovazione – ad ogni modo, esiste un ampio dibattito accademico su cosa effettivamente siano oggi i brevetti e sulla capacità attuale di questi di stimolare davvero l’innovazione-. La proprietà intellettuale è disciplinata dall’Accordo TRIPs (Agreement on Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights) del WTO, che prevede anche diverse forme specifiche di limitazione dei diritti esclusivi conferiti dal brevetto per motivi di interesse generale. Nel caso dei vaccini contro il Covid-19, si argomenta l’opportunità di fare ricorso alle cosiddette licenze obbligatorie, un istituto che rientra nella categoria “altri usi” prevista dall’Art. 31 del Trips, che concede agli Stati membri la possibilità di disporre del brevetto senza l’autorizzazione del titolare, qualora sia prevista una disposizione che lo permette nella legislazione nazionale e in circostanze di emergenza e situazioni non convenzionali, come appunto un’emergenza sanitaria. Questo consentirebbe la produzione o l’esportazione dei brevetti sui vaccini o dei vaccini in corso di brevettazione verso Stati privi della capacità necessaria a produrli localmente, indennizzando il titolare del brevetto. A questa soluzione deve precedere comunque una richiesta formale alle aziende di concedere la licenza; al momento, queste si sono dette largamente contrarie a farlo. Nel corso di un’audizione al Parlamento Europeo, il CEO di AstraZeneca, Pascal Soriot, ha detto: “la proprietà intellettuale è una parte fondamentale della nostra industria e se non la si protegge, non c’è più nessun incentivo ad innovare”(3), similmente a quanto affermato anche da Pfizer.

Chi è scettico o contrario rispetto alla possibilità di ricorrere a simili azioni, sostiene appunto che si creerebbe un precedente potenzialmente pericoloso nel lungo periodo: per le aziende, l’incentivo ad investire e fare ricerca per trovare un farmaco innovativo potrebbe essere compromesso di fronte alla possibilità di vedersi sfilare via il brevetto. Nel caso dei vaccini, si tratta peraltro di un investimento estremamente costoso con degli esiti incerti rispetto alle fasi di sviluppo e sperimentazione, e rimuovere il diritto brevettuale potrebbe disincentivare la ricerca.

Un argomento più forte è che le principali barriere alla produzione di un maggior numero di dosi sono attualmente soprattutto di tipo tecnico e scientifico, e pertanto la proprietà intellettuale non è in sè un ostacolo alla produzione di un numero maggiore di dosi. La scarsità di dosi disponibili è infatti un problema di limitata capacità produttiva dovuta al complesso processo di produzione di un vaccino, che richiede un know-how molto specifico, impianti appropriati come anche la necessità di rispettare elevati standard di sicurezza e qualità; non si tratta di produrre compresse di aspirina insomma. L’idea stessa di sospendere un brevetto per “girarlo” alle case farmaceutiche nazionali potrebbe essere difficilmente applicabile in pratica, perché la produzione si basa su capacità industriali e tecniche non sempre facili da essere riprodotte. Guido Rasi, professore di Microbiologia all’Università di Roma Tor Vergata ed ex direttore dell’EMA ha affermato:

“Nutro dei profondi dubbi su questo tema. E alcuni di questi approcci mi sembrano semplicistici. Non stiamo producendo il generico di una molecola a grande facilità di produzione. Stiamo producendo un medicinale complesso e servono grandi capacità di riconversione per produrlo. Il fatto di imporre una licenza senza il trasferimento di know-how non ha un riscontro nella realtà, e il fatto di rinunciare al brevetto non risolve il problema”.

Anche se il governo decidesse di ricorrere alle licenze obbligatorie per motivi di emergenza, senza la collaborazione da parte di chi ha sviluppato il vaccino è lecito pensare che sarebbe difficile avviare una produzione, dato che dietro ad un singolo vaccino vi sono più brevetti, formulazioni e segreti industriali.

Sempre il CEO di AstraZeneca ha affermato che il problema non è condividere i brevetti, ma aumentare la capacità di produzione. In un’intervista rilasciata a il Foglio che: “non è possibile produrre qualsiasi vaccino ovunque, non è così semplice neanche riconvertire impianti produttivi esistenti su questa specifica produzione e con una capacità adeguata alle esigenze di decine di milioni di dosi al mese. Sin dall’inizio della pandemia, il nostro approccio è stato quello di creare sinergie sia a livello nazionale che internazionale, consapevoli che solo con il lavoro di squadra è possibile provare a superare la pandemia”.

AstraZeneca così come altre aziende farmaceutiche si sono dette disponibili ad affidare volontariamente ad un’azienda terzista la produzione dei vaccini qualora vi fossero le condizioni in termini di capacità, volumi e competenze tecniche. Tuttavia, viene anche fatto notare come riconvertire gli stabilimenti farmaceutici esistenti richieda investimenti rilevanti ma soprattutto mesi di tempo, occorrendo la certificazione delle autorità regolatorie incaricate; i centri per produrre i farmaci di AstraZeneca, Pfizer/BioNTech e Moderna necessitano infatti di tecnologie specifiche, di cui al momento pochi stabilimenti italiani dispongono. In Italia, ci sono solo due impianti coinvolti nella produzione europea di vaccini, la fabbrica Catalent di Anagni, in provincia di Frosinone, che si occupa di “infialare” il vaccino di AstraZeneca, e lo stabilimento Gsk a Rosia, che dovrebbe contribuire a produrre il vaccino anti-Covid Sanofi-Gsk. Non c’è però nessuno stabilimento che produce vaccini a Rna messaggero come quelli di Pfizer e Moderna, una tecnologia nuovissima e particolarmente complessa. Secondo il commissario europeo al Mercato interno Thierry Breton, nessun paese nell’Unione è in realtà in grado di produrre interamente un vaccino in modo autonomo, non disponendo delle tecnologie adeguate. A febbraio Breton e Von Der Leyen hanno presentato il piano Hera Incubator, il quale si pone tra gli obiettivi principali quello di aumentare la capacità produttiva di vaccini nell’Unione. L’idea è che occorre collegare il più possibile le catene produttive dei paesi europei, potenziando il più possibile gli accordi di collaborazione tra le aziende. Infatti, la Commissione Europea si è detta contraria a ricorrere alle licenze obbligatorie, preferendo un approccio di cooperazione con l’industria farmaceutica e indicando la strada da percorrere nella collaborazione delle aziende tra di loro sulla base della condivisione volontaria dei brevetti. Esistono numerosissimi esempi di case biofarmaceutiche che, proprio per espandere la capacità produttiva, hanno dato vita a forme di cooperazione e partnership tra di loro, condividendo le attività produttive più onerose in termini di risorse per accelerare i ritmi di produzione: ad esempio, Sanofi ha offerto le sue linee di produzione per produrre il vaccino Pfizer-BioNTech, circa 125 milioni di dosi, destinate ai Paesi dell’Unione Europea; AstraZeneca ha siglato un accordo con l’India’s Serum Institute per produrre un miliardo di dosi di vaccino, di cui, secondo un’ulteriore accordo di GAVI con Serum Institute e il governo indiano, metà delle dosi saranno riservate ai paesi a basso reddito; Johnson&Johnson ha stipulato una partnership per il trasferimento della tecnologia del proprio vaccino con Aspen Pharmacare in Sudafrica. Lo scorso ottobre Moderna ha annunciato che non farà valere i propri brevetti relativi alla proprietà intellettuale sullo sviluppo del vaccino durante la pandemia; questo significa che altri soggetti possono già -in teoria- produrre il vaccino. Questi esempi, tra i tanti, dimostrano come i brevetti non siano un ostacolo alla cooperazione tra case farmaceutiche per espandere la produzione.

Per diverse ragioni, l’Unione Europea è effettivamente partita in leggero ritardo nell’approvvigionamento dei vaccini rispetto a paesi come Stati Uniti, Israele, Regno Unito, anche se adesso la Commissione europea sta cercando di recuperare terreno. Al momento però è plausibile pensare che il problema delle vaccinazioni in Europa non sia più tanto la disponibilità delle dosi, ma anche la capacità di somministrarle velocemente alla popolazione. Una recente inchiesta del The Guardian (4), sulla base dei dati dell’European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC) e altre fonti ufficiali, stima che 4.849.752 dosi delle 6.134.707 del vaccino Oxford/AstraZeneca distribuite nei 27 Paesi Ue non sono ancora state somministrate (al 25 febbraio 2021). Significa che 4 dosi su 5 non sono state utilizzate. Ad ogni modo, le dosi somministrate risultano diverse da paese a paese. Plausibilmente, le ragioni di queste differenze sono diverse: dalla difficoltà nel vaccinare alcuni gruppi prioritari, allo scetticismo iniziale di parte della popolazione verso il vaccino AstraZeneca, alla pianificazione delle scorte per la seconda dose. Al 28 febbraio, su 1.048.800 dosi di AstraZeneca consegnate in Italia ne sono state somministrate solo 317.675 (30,29%), con elevata variabilità su base regionale (l’attuazione del piano vaccinale è infatti rimesso alle singole Regioni, che stanno agendo con tempi e regole differenti). E si tratta pure di un miglioramento rispetto ai giorni precedenti. Fino a poco meno di un mese fa si lodava l’efficienza del piano vaccinale in Italia, che si collocava ai primi posti in UE per numero di vaccinazioni in proporzione alla popolazione, eppure oggi sembra esservi stata un’inversione di tendenza piuttosto evidente (5). Le ragioni sono diverse, ma è evidente che questo rallentamento non può essere imputato né ai brevetti, né ad una differenza di approvvigionamento tra i paesi nell’Unione Europea, che hanno tutti gli stessi fornitori. Al 1° marzo in Italia sono state consegnate 6.293.860 dosi totali di cui somministrate 4.354.008 (69.18%). Ci sono circa 2 milioni di dosi non utilizzate. (6)

In conclusione, è vero che “ci sono pochi vaccini” -soprattutto in prospettiva mondiale- nonostante ci siano pochi dubbi che gli sforzi delle case farmaceutiche per aumentare la produzione siano probabilmente senza precedenti. Le aziende farmaceutiche lavorano instancabilmente per aumentare l’offerta, proprio perché a fronte di un fabbisogno ancora largamente insoddisfatto queste hanno già un incentivo a massimizzare la capacità produttiva il più velocemente possibile. Forse, più che scagliarsi in appelli indignati contro “il ricatto di Big Pharma che ha il monopolio sui brevetti e fa profitto sulla pandemia” o simili slogan sarebbe più opportuno capire, ad esempio, come accelerare il più possibile nella somministrazione delle dosi e risolvere le criticità del “piano” vaccinale italiano. Espandere ulteriormente la produzione è sicuramente auspicabile, ma la soluzione non risiede nella sospensione dei brevetti per il semplice fatto che non sono questi la causa della scarsità di dosi disponibili. (5)

Fonti dell’autrice

Puoi continuare a seguirci su https://t.me/economiaitalia per altri articoli

Exit mobile version