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Verso la liquidazione giudiziale: il fallimento non è (più) un fallimento?

Il fallimento è un evento fisiologico dell’economia, eppure la visione italiana del fare impresa tende a rifiutarlo, considerandolo alla stregua di un tabù. In realtà si tratta di un meccanismo alla base di un’economia di mercato, laddove il mantenimento in vita di un’impresa non sana sacrifica la liberazione del capitale verso attività maggiormente remunerative e la moltiplicazione di opportunità per i soggetti, le cui potenzialità non sarebbero più concentrate in luoghi in cui non si ha una possibilità di crescita.
Le divergenze nella visione italiana e quella anglosassone del fallimento hanno radici storiche che possiamo ritrovare nella legislatura di queste due culture. Il termine “fallito” proviene dal verbo latino fallere, ingannare. Ed era esattamente così che il soggetto fallito veniva considerato nell’ordinamento giuridico italiano. Un ingannatore, un criminale che meritava di essere tagliato fuori dalla società e privato dei diritti. Sulla Pietra del Vituperio, testimonianza risalente all’età medievale, i debitori divenuti insolventi dovevano sedersi vestiti delle sole braghe di tela, ripetendo a voce alta cedo bonis, rinuncio ai beni, per poi venire espulsi dalla città. E mentre in Italia vigeva una forte discriminazione del fallito, in Inghilterra veniva giuridicamente definita la differenza tra debitore imprenditore e debitore comune. In particolare, venne riconosciuta la necessità per l’imprenditore di ricorrere all’indebitamento e quindi utilizzare capitale altrui per poter esercitare la professione, necessità non riconosciuta ad un soggetto comune. Si stava implicitamente dichiarando che un imprenditore non era da condannare per il semplice motivo di aver fallito, e che il successo di un’impresa non ha un nesso logico con la liceità e la trasparenza nell’utilizzo del credito concesso.
L’atteggiamento medievale nei confronti del fallito venne conservato nell’applicazione in Italia del Code de commerce francese all’inizio del XIX secolo. Napoleone definiva un grand malheur il fallimento di un’impresa.
In Italia timidi progressi presero piede a partire dagli anni Novanta del Novecento, conservando lo stesso ritmo fino ai giorni nostri. La perdita di una distinzione netta come in passato tra la cultura giuridica anglosassone (soprattutto statunitense) ed italiana è da considerare con certezza una delle motivazioni di questo cambiamento.
A causa dell’emergenza da COVID-19 è stata rimandata al settembre 2021 l’entrata in vigore della direttiva europea Insolvency e l’introduzione del Codice della crisi d’impresa (Ccii), dove la parola (di storico rifiuto) fallimento sarà sostituita da liquidazione giudiziale. Ma un cambiamento nel nome sarà accompagnato da un cambiamento nella sostanza? La direttiva Insolvency intende favorire un allineamento a livello europeo delle modalità del recupero dell’impresa in crisi. Introduce l’obbligo per gli stati membri di assicurare un regime che faciliti la ristrutturazione preventiva dell’impresa, ove vi sia probabilità di insolvenza tramite, ad esempio, il ricorso ad early warning tools (strumenti di allerta precoce). Nel «Reviving and Restructuring the corporate sector post-covid», presentato da Mario Draghi per il G30, è stato suggerito di abbandonare il focus sulla liquidità e di abbracciare un atteggiamento forward looking. Ma uno strumento di allerta che misura il cash disponibile in un orizzonte temporale di sei mesi (articolo 13, Ccii), può effettivamente essere considerato forward looking?
Dal primo settembre saranno inoltre istituiti gli Organismi di composizione della crisi d’impresa (OCRI, articolo 16), che riceveranno le segnalazioni ed assisteranno le imprese nel risanamento. Le critiche mosse nei confronti di tale organo riguardano essenzialmente due questioni: i costi ulteriori che graverebbero sulla situazione economica dell’impresa e la pubblicità negativa che tali segnalazioni diffonderebbero, soprattutto qualora non dovessero esistere concrete probabilità di fallimento.
Occorre quindi analizzare dettagliatamente e in un arco temporale adeguato quello che potrebbe essere il futuro dell’impresa, considerando la situazione finanziaria, patrimoniale e reddituale precedente alla crisi del 2020. Se da questa disamina si deduce l’incapacità di poter recuperare competitività, allora qualsiasi azione “protettiva” causerebbe effetti distorsivi. Un ambiente imprenditoriale protetto comporta meno innovazione ed un persistere del grave problema di stagnazione della produttività. Quest’ultima, ferma da anni, è un fattore determinante per il reddito pro-capite futuro. I ristori sono un ostacolo alla crescita se non accompagnati da “dinamica di impresa”. I sussidi fanno coesistere imprese efficienti e inefficienti, riducendo la divergenza tra i “valori limite”. Al termine della crisi questi valori ritorneranno a divergere senza, tuttavia, un contemporaneo aumento della dinamicità. Nell’ultimo anno le imprese più dinamiche hanno modificato i processi produttivi, talvolta convertendoli completamente per indirizzarli verso la creazione di prodotti con maggior domanda nel periodo. Nonostante ciò, non si sono registrati maggiori investimenti che assorbiranno il capitale umano uscente dalle imprese zombie.
Occorre ragionare con una prospettiva di lungo periodo, abbandonare il dogma del fallimento come sconfitta ed incoraggiare le imprese in maggiori investimenti. L’esdebitazione (o discharge, liberazione del fallito dai debiti residui della procedura fallimentare a fronte di un comportamento corretto) è una sorta di seconda possibilità, un beneficio riconosciuto dal Ccii che vuole evitare la fuga di imprenditori verso Paesi con tempi e condizioni di esdebitazione più veloci e convenienti. Tale beneficio non può essere un mero concetto teorico, ma merita la corrispondente applicazione nella pratica. L’avvio di un percorso che avvicina la concezione italiana di fallimento a quella anglosassone deve garantire un’economia aperta, innovativa, a fresh start.

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