Verso una corporate-tax minima globale?
Gli Stati Uniti hanno annunciato un cambio di rotta in materia fiscale: insieme all’American Jobs Plan, un piano infrastrutturale che vale oltre 2.000 miliardi di dollari su un arco temporale di otto anni, il Presidente Biden ha presentato una nuova proposta di riforma fiscale che, tra le altre cose, prevede di aumentare la tassazione sulle imprese statunitensi. Implicita nella proposta è una guerra ai “paradisi fiscali”, motivo per cui la Presidenza USA si è dimostrata favorevole ad un accordo con gli altri Paesi del G20 per un’armonizzazione della tassazione sulle aziende a livello internazionale. Se il taglio delle tasse per le imprese era stato uno dei cavalli di battaglia della presidenza Trump, il Made in America Tax Plan di Biden prevede un rialzo al 28% dell’aliquota della corporate income tax, dal 21% (precedentemente 35%) fissato dal suo predecessore nel 2017. In discussione anche un aumento della Global Intangible Low-Taxed Income tax (GILTI), portando l’aliquota dal 10,5% al 21%, e l’introduzione di una tassa minima domestica del 15% per le società con utili oltre i 2 miliardi. Nel complesso, si stima che il costo totale del piano Biden sarà pari a 2.700 trilioni di dollari, a fronte di nuove entrate fiscali pari a 2.100 trilioni in 10 anni, dal 2022 al 2031; gli aumenti dell’aliquota al 28% e l’aumento della tassa minima sui profitti esteri al 21% dovrebbero generare rispettivamente 891 miliardi e 727 miliardi di dollari.
Le implicazioni della riforma fiscale americana potrebbero inoltre non rimanere confinate agli Stati Uniti: il 6 aprile, durante un discorso al Chicago Council on Global Affairs, Janet Yellen, attuale Segretario del Tesoro ed ex presidente della Fed, ha infatti avanzato una proposta per una tassa minima globale sui profitti delle società multinazionali. Si tratta di un tema che sarà molto probabilmente al centro del dibattito durante gli incontri del G20, sotto la presidenza italiana.
Nel suo discorso, la Yellen ha detto che “concorrenza (…) significa anche assicurarsi che i governi abbiano dei sistemi fiscali stabili, in grado di raccogliere entrate sufficienti per investire in beni pubblici essenziali e reagire alle crisi”. Nell’esporre la necessità di aumentare le tasse sui redditi delle società, il Segretario del Tesoro USA e il Presidente Biden hanno dunque parlato delle implicazioni positive che ne seguirebbero in termini di innovazione, crescita e maggiore concorrenza a livello internazionale, ma anche di maggiore “equità” e di sostegno alla ripresa economica dopo la pandemia.
In quest’ottica, la proposta servirebbe non solo a scoraggiare una corsa al ribasso internazionale tra regimi fiscali, ma anche a finanziare in larga parte l’ambizioso piano di ripresa economica varato dall’amministrazione Biden, attraverso le maggiori entrate derivanti da un aumento della pressione fiscale sulle imprese. Il direttore del National Economic Council, Bharat Ramamurti, in un’intervista rilasciata a Bloomberg ha detto: “il Presidente crede fortemente che le grandi aziende che hanno performato estremamente bene durante gli ultimi decenni dovrebbero pagare un po’ di più” .
Più in generale, il tema, sebbene mai del tutto abbandonato, dell’aumento o dell’introduzione di nuove forme di tassazione – dalla patrimoniale, alla web tax – è tornato di recente alla ribalta nel dibattito pubblico di diversi paesi, parallelamente alla necessità dei governi di trovare le risorse per finanziare i significativi deficit pubblici fatti in risposta alla crisi pandemica. Chiaramente, le grandi imprese multinazionali, specialmente quelle il cui business principale avviene online e che hanno aumentato i propri guadagni durante i lockdown, sembrano essere un target particolarmente attraente a questo proposito. Oltre agli USA, anche il Regno Unito sta lavorando ad un piano per aumentare la corporate tax dal 19% attuale al 25% dal 2023.
Ad ogni modo, l’apertura statunitense verso una forma di armonizzazione fiscale a livello internazionale rappresenta un forte segnale di forte collaborazione verso i lavori dell’OCSE, dove ormai da diversi anni, sebbene con scarsi risultati, vanno avanti dei negoziati sul tema. In particolare, a metà del 2019 gli USA hanno deciso di sospendere le trattative in corso, ritenendo che le proposte di tassazione sulle imprese tech costituissero una discriminazione nei propri confronti. Nel 2013 l’OCSE ha adottato il pacchetto BEPS (Base Erosion Profit Shifting) , che identifica 15 azioni di contrasto alle pratiche di erosione della base imponibile e di trasferimento degli utili da parte delle società, in modo da evitare che queste possano sfruttare i gap esistenti in materia fiscale tra le diverse legislazioni nazionali per minimizzare le tasse da pagare; si tratta in ogni caso di strumenti giuridicamente non vincolanti. Più recentemente, ad ottobre 2019, l’OCSE ha pubblicato una proposta volta a trovare una soluzione internazionale sulla tassazione delle società multinazionali, in particolare quelle operanti nel digitale. Il progetto si articola in due principali pilastri: il primo si basa sulla revisione delle attuali regole di allocazione dei profitti di una società tra diversi paesi, e mira ad individuare un nesso (“nexus”) tra la presenza economica significativa di un’azienda fisicamente assente in un paese, e il diritto di questo di tassarne i profitti. Il secondo pilastro è incentrato proprio sull’introduzione di un livello minimo di imposte sugli utili delle società a livello internazionale, ancora da definire nei dettagli. A livello di G20 si mira dunque a definire una soluzione condivisa entro la fine dell’anno, sebbene sia plausibile pensare che raggiungere un simile accordo in una materia così sensibile, a livello addirittura internazionale, potrebbe rivelarsi estremamente complicato (se non impossibile). Va notato che nel 2016 anche la Commissione Europea aveva avanzato una proposta per una EU Common Consolidated Corporate Tax Base, ma non è stata approvata dal Consiglio Europeo.
I Ministri delle finanze di Germania e Francia hanno accolto positivamente la proposta statunitense, strettamente connessa con il dibattito sulla tassazione delle Big Tech. Per quanto riguarda l’Italia, il Ministro dell’Economia, Daniele Franco, ha affermato di auspicare che si arrivi ad un accordo sulla tassazione minima globale entro luglio di quest’anno.
Il Ministro ha inoltre messo in luce la difficoltà di giungere ad una soluzione condivisa nei dettagli da tutti i paesi, oltre a ribadire come le varie web tax introdotte unilateralmente da diversi Stati, Italia compresa, non rappresentino una soluzione ottimale. Tra l’altro, l’effettiva entrata in vigore della web tax italiana, prevista per quest’anno, potrebbe essere revocata qualora venisse trovato un accordo per una tassazione comune in sede OCSE. Entro giugno di quest’anno, inoltre, la Commissione europea presenterà una proposta di Digital Tax europea, che dovrebbe essere introdotta nel 2023 per finanziare il debito contratto attraverso Next Generation EU. In conclusione, la proposta di una tassazione minima a livello internazionale è sicuramente ambiziosa, ma bisognerà vedere fino a che punto si dimostrerà implementabile nei fatti, anche considerando la significativa differenza tra le attuali aliquote sulle società negli stessi paesi Europei: alcuni paesi dovrebbero sostanzialmente alzare il carico fiscale, accettando di auto-penalizzarsi – e, oltretutto, potrebbero esserci buone ragioni anche per dubitare dell’effettiva convenienza della proposta in sé -. In questi giorni si terrà anche l’incontro primaverile annuale del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, occasione in cui si inizieranno a delineare le prospettive future a tal proposito.
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