Giurisprudenza

10 FEBBRAIO 1986, L’INIZIO DEL MAXIPROCESSO

Nel momento in cui sentiamo pronunciare la parola mafia, pensiamo subito al maxiprocesso di Palermo, che rappresenta il primo processo in cui la mafia stessa, e in particolare ‘Cosa Nostra’ viene processata in quanto associazione di stampo mafioso.

Il Maxiprocesso ha rappresentato, allo stesso tempo, la prima conferma dell’esistenza di Cosa Nostra, e quindi la necessità, da parte del sistema giudiziario italiano, di attuare tutte le condotte utili alla sua definitiva sconfitta; e la presenza di uno Stato che aveva deciso di intervenire per interrompere quel rapporto di dipendenza con la mafia, venne infatti definito come ‘il teatro delle ragioni di Stato’.

Falcone, in un’intervista a Tg2, successiva alla lettura del dispositivo dell’udienza di primo grado del Maxiprocesso, lo ha definito come ‘una tappa importante, nel processo di chiarificazione, di acquisizione e di consapevolezza del fenomeno mafioso’, un punto di partenza e non di arrivo, nell’attività di repressione del fenomeno mafioso, a dimostrazione del fatto che la Mafia non era stata ancora sconfitta definitivamente e che quello era solo il primo passo.

I maxiprocessi vengono visti come rappresentazione di una politica giudiziaria che vuole combattere la criminalità dilagante, diventando un mezzo di difesa sociale e di lotta alla mafia, questo rappresenta un utilizzo improprio del procedimento, il cui fine è rappresentato dalla volontà di dare una risposta adeguata all’illegalità dilagante sotto il profilo psicologico.

Questa tendenza porta il maxiprocesso a diventare il simbolo della lotta alla mafia con la volontà di ricostruire la fiducia messa in crisi dalla minaccia criminale, inoltre il fatto di rendere il dibattimento pubblico è un modo per lo stato di rassicurare il pubblico e delinea un uso propagandistico dello strumento processuale comportando anche l’entrata in crisi della figura del giudice.

Ma come si è arrivati al Maxiprocesso del 1986?

Il procedimento è stato possibile solamente dopo l’introduzione dell’articolo 416 bis del codice penale, introdotto nel 1982 grazie alla Legge Rognoni-La Torre, che disciplina l’associazione a delinquere di stampo mafioso. L’introduzione della nuova fattispecie avvenne in seguito agli omicidi del sindacalista e politico comunista Pio La Torre, il 30 aprile 1982, e del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso il 3 settembre dello stesso anno in via Carini a Palermo.

474 imputati, di cui 221 detenuti, 59 a piede libero e 194 latitanti, non si era mai visto un processo di tali dimensioni, tanto che è stata creata appositamente un’aula bunker accanto al carcere dell’Ucciardone di Palermo; venti mesi passati tra testimonianze ed arringhe difensive, una sentenza di primo grado con un dispositivo di 53 pagine, le motivazioni sono di circa 7000 pagine divise in tomi. La conclusione del primo processo ci ha consegnato 19 ergastoli.

Nonostante questo, non si possono tacere i lati negativi dei maxiprocessi, che aveva un iter procedimentale che quasi annullava le garanzie difensive. Con il cambio di direzione avuto nel 1988 con l’introduzione del nuovo codice di procedura penale si arriva allo slogan “sì alle maxi-indagini, no ai maxi-processi”.

Il nuovo codice infatti andava nella direzione di un favor separationis, cercando di evitare i processi cumulativi con molti imputati; il vecchio Codice, però, con la disciplina del processo cumulativo andava a favorire l’economia dei mezzi, dovendo essere le prove utilizzate all’interno dello stesso procedimento, ed evitava, allo stesso tempo, la possibilità di contrasti tra giudicati; tutto ciò portava, però, ad una eccessiva durata del procedimento, principio ora sancito nell’art. 111 Cost.

Uno dei problemi più rilevanti, era la mortificazione del diritto di difesa effettuata dalle lungaggini all’interno del procedimento, derivanti anche dalla presenza di numerosi imputati, incideva anche sulla presunzione di non colpevolezza, che si concretizzava in una rapida verifica della propria innocenza. La rapidità dell’accertamento, in procedimenti con più imputati veniva meno anche nel momento in cui si sarebbe dovuto procedere ad interrogatorio di garanzia, previsto dall’art. 365 c.p.p. del vecchio codice, infatti l’interrogatorio doveva avvenire entro 15 giorni dall’arresto, termine che difficilmente veniva rispettato; per questo l’interrogatorio veniva trasformato da esercizio del diritto di difesa a mezzo per evitare scarcerazioni per decorrenza dei termini della custodia cautelare.

La compressione del diritto di difesa avveniva anche nella fase immediatamente successiva di chiusura dell’istruzione formale, qui il difensore poteva prendere visione di tutti gli atti prima coperti dal segreto istruttorio interno, ma il termine entro cui presentare memorie era di cinque giorni, appare quindi quasi impossibile per il difensore garantire una completa attività difensiva.

La prassi giudiziaria andava a limitare le garanzie difensive nel momento in cui il magistrato procedente non interrogava tutti gli impuntati; in quest’ottica entrava in crisi anche il principio dell’oralità.

La poca adattabilità del nuovo codice nei procedimenti a carico della criminalità organizzata risultava ancora più evidente in tema di prove. Si obiettava che la circolazione probatoria non fosse sufficiente ad evitare il pregiudizio nell’accertamento dei delitti di mafia, nei quali il nesso probatorio era una costante, in quanto l’approvazione implicita di entrambe le parti avrebbe portato all’ingresso dei soli atti inoffensivi.

Seguendo questo schema, le inchieste venivano suddivise in una pluralità di procedimenti, e per questo motivo diventava inutile provare in ogni processo l’esistenza dell’organizzazione e la sua struttura interna, dato che era stato già definito in altre sedi giudiziarie. Ciò comportava una serie di difficoltà in quanto il testimone doveva comparire in più dibattimenti per ripetere la stessa versione dei fatti, con conseguente logoramento della capacità di ricostruzione dei fatti (la c.d. usura del testimone) e di esposizione del testimone stesso ad atti intimidatori.

Abbiamo visto brevemente come il Maxiprocesso sia contornato da luci ed ombre, ma nonostante questo, bisogna ricordarlo come una pietra miliare sia dal punto di vista giuridico che dal punto di vista sociale.

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