Lavoro, Scienze economiche

Skill mismatch: minaccia per la crescita?

Nell’era dell’industria 4.0, dei computer e dell’alta tecnologia si sente sempre più spesso parlare di “skill mismatch”. Cos’è? Perché è un problema? E, soprattutto, come risolverlo? Ne parliamo nel nostro articolo di oggi.

Skill mismatch: cos’è?

Lo skill mismatch consiste, fondamentalmente, nella mancata corrispondenza esistente tra le competenze che le persone acquisiscono e quelle richieste in ambito lavorativo dalle aziende.

Il problema è in parte causato da  comunicazioni inefficaci, o inesistenti, tra il settore privato e le autorità educative: ci sono enormi divari tra gli obiettivi dei sistemi educativi e le esigenze delle imprese. A meno che non prestino attenzione alle intuizioni del settore privato, i sistemi di istruzione e sviluppo delle competenze continueranno a preparare persone le cui competenze saranno obsolete o in eccesso di offerta al momento della laurea, ampliando una “trappola delle qualifiche”. Fattori, questi, ben evidenziato da studi condotti a livello europeo sul tema, che danno i seguenti risultati:

Figura 1: Le cause dello skill mismatch in un campione di Paesi Europei

I datori di lavoro, a loro volta, fanno fatica ad assumere persone che non hanno le competenze da loro richieste; cosa – questa – che pregiudica ancora di più l’appetibilità di quei lavoratori. Ancora una volta, lo studio sopracitato offre una panoramica dettagliata dei maggiori costi sopportati dai datori di lavoro:

Figura 2: le principali ragioni della mancata assunzione di un lavoratore che non possiede le giuste competenze

Tale questione è ancora più grave considerando la distanza tra il campo di studi perseguito e il lavoro (eventualmente) trovato. Come stima questo studio OCSE in merito, diversi punti di PIL potenziale vengono sacrificati proprio a causa di questo fenomeno.

Skill mismatch: quanto ci costa

Proprio con riferimento ai costi (nascosti o meno) di questo fenomeno ne capiamo la sua importanza.

Nei paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), lo skill mismatch colpisce due dipendenti su cinque; e secondo le stime effettuate dal Boston Consulting Group, il disallineamento delle competenze colpisce 1,3 miliardi di persone in tutto il mondo e impone una sorta di “tassa” occulta annuale del 6% sull’economia globale sotto forma di perdita di produttività del lavoro.

Figura 3: l’incidenza dello skill mismatch nei paesi OCSE

Per dare un’idea del fenomeno, alcuni dati che sono riportati dal Boston Consulting Group chiariscono ancora di più quali siano le sfide centrali per le economie dei paesi avanzati e non solo:

  • In primo luogo il fatto che non siamo sufficientemente concentrati sulla formazione per lavori che devono ancora nascere; considerando che tale studio prevede che entro il 2022 il 27% dei posti di lavoro disponibili sarà in ruoli che ancora non esistono.
  • La maggior parte dei membri della forza lavoro non è coinvolta nell’apprendimento permanente e nella riqualificazione continua. Le competenze, quindi, stanno diventando obsolete a un ritmo sempre più rapido (le competenze tecniche, ad esempio, sono obsolete da due a cinque anni), aumentando la necessità di riqualificazione;
  • L’accesso alle opportunità del mercato del lavoro è limitato. Circa il 41% delle persone in cerca di lavoro trova lavoro attraverso piattaforme online, il 14% attraverso i social network. Nel frattempo, 3 miliardi di persone (soprattutto in Asia e Africa) non hanno accesso a Internet.
  • La distribuzione del capitale umano non è uniforme. Negli Stati Uniti, il 90% delle domande di lavoro riguarda posizioni entro 100 chilometri dalla posizione della persona in cerca di lavoro; il pool di candidati aumenta fino al 20% quando la regione di ricerca viene ampliata.
  • Le esigenze della forza lavoro stanno cambiando. La Generazione Z è pronta ad accettare guadagni inferiori del 10% per lavorare meno ore. Solo il 36% di quel gruppo considera la crescita della carriera una priorità assoluta.

Quali le soluzioni?

Come risolvere questo problema? Sicuramente un ruolo attivo lo giocano le politiche attive per il lavoro portate avanti dal settore pubblico; così come la revisione dei meccanismi di sostegno al reddito e dei programmi all’interno delle scuole e delle università (orientandoli, magari, su una formazione più scientifica). Il PNRR del Governo Draghi ha destinato, in questo senso, circa 5 miliardi ai percorsi di formazione (ex novo oppure di avanzamento); dimostrando forte attenzione al tema. Un ruolo lo può (e deve) giocare il settore privato; magari promuovendo incontri tra gli studenti (specie a livello universitario) e il mondo del lavoro; per comprendere non solo le dinamiche del mondo del lavoro reale ma anche (e soprattutto) le competenze richieste dallo stesso. Come scritto in un articolo sul tema su “Linkiesta”:

La formazione professionale e i percorsi di reskilling e upskilling saranno centrali per colmare questo divario tra domanda e offerta. E in questo processo servirà necessariamente una collaborazione tra pubblico e privato. Ovvero tra i centri per l’impiego pubblici, che certo negli anni non hanno brillato per efficienza e funzionalità, e le agenzie per il lavoro private accreditate che invece possono offrire una risposta concreta grazie a una conoscenza stretta delle esigenze delle aziende italiane in termini di competenze richieste.

Un compito di non facile soluzione, ma che per la crescita economica rappresenta una delle tante sfide dei policymakers dei prossimi decenni.

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